L’Acropoli di Atene, dalla fine della dittatura a oggi, assediata dalle richieste predatorie di ogni interesse particolare

La culla del populismo

Takis Pappas

Cari europei, Atene non è vittima della finanza ma delle clientele pubbliche bipartisan

La vulgata vuole che la grave crisi economica stia mettendo a rischio la sopravvivenza della democrazia in Grecia, nella culla stessa del “governo del popolo, per il popolo”. E’ davvero così? Un politologo greco, Takis S. Pappas, sostiene praticamente la tesi opposta, in un lungo saggio apparso sul Journal of Democracy (rivista edita dal National Endowment for Democracy, fondazione finanziata dal Congresso statunitense, e dalla Johns Hopkins University). La tesi del professore, oggi “Marie Curie Fellow” all’Istituto universitario europeo (Eui) di Fiesole, in estrema sintesi è questa: se la recessione greca dura da sei anni, lo si deve innanzitutto alla degenerazione “vetocratica” e “populistica” del regime politico di Atene. Il che suona come un monito per tutte quelle democrazie, Italia inclusa, che da tempo si stanno rivelando incapaci di attuare riforme che tutelino interessi generali e di lungo termine, al punto da tentare pure esperimenti di “depoliticizzazione” come i governi tecnici (quello di Mario Monti dal novembre 2011 al dicembre 2012) o di grande coalizione (quello attuale guidato da Enrico Letta ma con una robusta stampella tecnocratica).

 

Il ragionamento di Pappas prende spunto da un apparente paradosso. Quella greca, fino all’inizio degli anni 2000, fu considerata dagli osservatori internazionali come una storia di successo, da premiare già nel 1981 con l’ingresso nell’Unione europea, a soli 7 anni dalla caduta del regime autoritario dei colonnelli. Nel 2008, però, Atene è diventata la prima vittima della crisi finanziaria in Europa: nel giro di pochi mesi è stata costretta a chiedere un sostanzioso aiuto internazionale (a Unione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale), mentre all’interno ha visto sfaldarsi il suo sistema essenzialmente bipartitico e nascere forti movimenti antisistema. Secondo il politologo, per spiegare tale involuzione non sono sufficienti né le “teorie culturali” né quelle “istituzionali”: le prime non danno conto di come il paese, subito dopo il 1974, “ebbe successo nel costruire un regime politico pluralista ‘nonostante’ le condizioni palesemente avverse di tipo geografico, storico e culturale”; le seconde fanno difficoltà a spiegare l’attuale situazione “che non è stata causata dall’assenza di istituzioni politiche ed economiche ‘inclusive’ (come le hanno chiamate Daron Acemoglu e James Robinson nel loro libro “Why nations fail”, ndr), ma piuttosto si è avverata nonostante la presenza di tali istituzioni”. La Grecia ha un duplice e inspiegabile record: “E’ sia l’unico paese in Europa che ha visto fallire il proprio stato in alcune aree chiave durante la recente crisi economica, sia il paese europeo che si è dimostrato più refrattario alle riforme”. Il “fallimento” del paese è dunque “il risultato di un lungo processo durante il quale il populismo ha prevalso sul liberalismo ed è diventato egemonico nella società. E io intendo il populismo – scrive Pappas – semplicemente come l’illiberalismo democratico, considerandolo come l’esatto opposto del liberalismo politico”. Lo studioso quindi passa a dimostrare che “dopo aver raggiunto il potere nel 1981, il populismo ha permeato la politica greca e ha prodotto quello che io chiamo una ‘democrazia populista’, la quale richiede due meccanismi: primo, uno stato dedito a distribuire rendite praticamente per ogni membro della società; e poi un sistema di partiti costruito per assicurare la distribuzione di queste rendite in una maniera ordinata e democratica, cioè a rotazione invece che una volta per tutte”.

 

Il ragionamento di Pappas si fonda su un’utile ricostruzione storica. Il politologo ricorda così che il ritorno di Konstantinos Karamanlis (1907-1998) dall’esilio che si era imposto durante il regime dei colonnelli coincise con un “successo iniziale” del paese. Fu Karamanlis, legalizzando il Partito comunista, convocando un referendum sulla monarchia, fondando “Nuova democrazia” come partito liberale e conservatore, e assicurando l’approvazione di una Costituzione pluralista nel 1975, a stabilizzare la vita democratica. In quegli anni però, tra choc petroliferi e spese militari da sostenere quasi autonomamente per controbilanciare i vicini turchi, la situazione economica non fu d’aiuto. Anche per questo Karamanlis “optò per un modello di capitalismo di stato simile al ‘dirigisme’ francese”. Infine lo stesso capo di governo puntò da subito sul vincolo esterno dell’Europa che avrebbe potuto – diceva – “limitare i difetti” del paese: nel 1978 i leader Ue giudicarono positivamente i passi in avanti del paese verso la democrazia e firmarono il trattato per l’accesso del paese all’Unione, poi conclusosi con l’adesione nel 1981. Tutto sembrava andare per il meglio: nel 1980 Karamanlis divenne presidente e l’anno dopo si assistette anche a una fisiologica alternanza parlamentare, con la vittoria alle elezioni parlamentari del Pasok (movimento socialista panellenico) fondato sette anni prima da Andreas Papandreou (1919-1996). “Papandreou arrivò al potere – scrive Pappas – attaccando da sinistra le fondamenta liberali della democrazia post autoritaria, mettendo in dubbio la sua legittimità e rigettando i suoi obiettivi. Mentre Karamanlis, che esplicitamente aveva riconosciuto una molteplicità di conflitti nella società, aveva enfatizzato la moderazione e ricercato attivamente un consenso politico, Papandreou introdusse il populismo nella sua forma più pura”. Una “nuova narrativa simbolica di fondo” prevalse, per la quale da una parte c’era “il popolo” e dall’altra “l’establishment, nazionale o straniero che fosse”, “forze della luce” contro “forze dell’oscurità” (come erano chiamati gli elettori dell’opposizione liberal-conservatrice). In pratica, poi, si passò da una crescita guidata dallo stato a una “redistribuzione diretta dallo stato”, ovviamente anche dei fondi in arrivo da Bruxelles. Nel 1990 Nuova democrazia tornò al potere, “dopo dieci anni di populismo”, e il leader Konstantinos Mitsotakis pensò di avviare una serie di riforme strutturali e di riavvicinarsi diplomaticamente a Stati Uniti ed Europa; l’opposizione fu fortissima, nel 1993 il governo cadde e il Pasok di Papandreou tornò al potere. “Il governo di Mitsotakis fu l’ultimo urrà del liberalismo”, secondo il politologo greco che scrive per il Journal of Democracy. A quel punto, infatti, anche Nuova democrazia pensò che fosse più conveniente seguire un’altra strada: “Entro la metà degli anni 90, Nuova democrazia si era ribattezzata come un ‘partito del popolo’, dopodiché aveva cercato di surclassare le promesse già eccessive del Pasok. Questa tendenza divenne particolarmente evidente quanto Kostas Karamanlis, nipote del fondatore del partito conservatore, ricoprì l’incarico di leader di Nuova democrazia tra il 1997 e il 2009. Egli espulse dal partito i principali sostenitori del liberalismo politico e fece continuamente ricorso a una retorica tale che lo fece assomigliare più ad Andreas Papandreou che allo zio che era stato anche suo mentore”. Quando a capo del Pasok arrivò un leader più moderato e vagamente tecnocratico come Kostas Simitis, circostanza che si realizzò soltanto nel 1996, nel momento in cui il fondatore Papandreou si ammalò gravemente, egli fu “costretto a governare all’interno dei limiti materiali fortemente radicati e tracciati dalle politiche populiste avviate negli anni 80”, scrive Pappas citando questa volta lo studioso Vassilis Fouskas. “In realtà il Pasok rimase permeato dal populismo che alimentò nepotismo, corruzione e inefficienza, e che alla fine portò alla sconfitta elettorale nel 2004. I governi di Nuova democrazia che si alternarono al potere dal 2004 al 2009 promisero di riformare l’amministrazione statale, di combattere l’inefficienza e la corruzione, ma in realtà realizzarono poco. Come sotto il Pasok, le riforme rimasero una causa persa. Delle poche riforme che Nuova democrazia provò a fare, nessuna fu poi implementata con successo nonostante l’esistenza di varie condizioni favorevoli, tra cui ‘uno stato unitario, governi maggioritari, stabili e retti da un solo partito, con severa disciplina di partito e pochi veto player’. In effetti, il fallimento del tentativo di portare cambiamenti così tanto necessari, in settori chiave come le pensioni e la sanità (Pasok) e l’educazione (Nd), è diventato la caratteristica principale di tutti i governi nella democrazia populistica greca. Non solo queste riforme sono state ostacolate da forti interessi costituiti nella società e mai implementate, ma i politici che hanno cercato di introdurle sono stati puniti al momento del voto, al punto che alcuni si sono ritirati dalla vita pubblica”. Il “riformismo” fu insomma il vero “sconfitto” nella storia contemporanea di Atene.

 

Per ricapitolare: “Così per tre decenni – dall’arrivo al potere del Pasok con Andreas Papandreou nel 1981 alle dimissioni di suo figlio, il primo ministro George Papandreou che passò il testimone a un governo di transizione per gestire la crisi debitoria del 2011 – i due maggiori partiti della Grecia sono stati in condizione di alternarsi al potere, il più delle volte gestendo ampie maggioranze parlamentari: il Pasok ha governato nei periodi 1981-’89, 1993-2004 e 2009-2011; Nuova democrazia nel 1990-1993 e 2004-2009”. Unica eccezione fu quella di un governo di coalizione, con dentro anche il Partito comunista, formatosi in circostanze straordinarie e durato dal giugno 1989 all’aprile 1990. “In questi decenni, la Grecia si è sviluppata come una democrazia populista, una sottocategoria democratica in cui il partito al governo e (almeno) il principale partito d’opposizione sono entrambi populisti”. Secondo Pappas, i meccanismi che hanno reso possibile questo unicum sono due: “La capacità redistributiva dello stato greco che è diventato sempre più grande” e “la meccanica polarizzante del sistema partitico ellenico”.

 

[**Video_box_2**]Il “patronage politico” ha solitamente due tratti peculiari: “Primo, una distribuzione di benefici legati allo stato o di rendite politiche indirizzate a gruppi sociali specificamente individuati; secondo, la natura materiale di questi incentivi”. In Grecia si è andati oltre: “La prima particolarità è che le rendite e gli incentivi o i diritti acquisiti non erano soltanto di natura materiale, ma includevano anche benefici come un’ampia immunità de facto dalla legge. La seconda differenza è legata alla natura stessa della democrazia populista: gli incentivi erano mirati per gruppi specifici ma, poiché la società è stata divisa in due parti tra loro inconciliabili, rappresentate da partiti che si sono alternati regolarmente al potere, tutti i cittadini hanno potuto ragionevolmente aspettarsi di guadagnare dalle pratiche di patronage ogni volta che il loro partito ha vinto le elezioni”. La società greca ha così ricevuto sostegni al reddito reale sotto forma di pensioni e stipendi; protezione dai rischi di mercato e impunità dalla legge. L’indizio più lampante è quello che viene dall’amministrazione pubblica: “Fino a che il Pasok non arrivò al potere, lo stato greco era relativamente snello; dava lavoro a 510.000 persone su una popolazione di allora circa 10 milioni. Come dimostrato dalle serie storiche dell’Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro) e come corroborato da altre numerose fonti, l’impiego nel settore pubblico schizzò verso l’alto negli anni 80 (raggiungendo i 786.200 impiegati nel 1990, un incremento di oltre il 50 per cento in soli dieci anni) e ha poi continuato a salire almeno fino al 2008. In quell’anno, la Grecia aveva più di un milione di dipendenti pubblici, abbastanza per costituire il 21 per cento dell’intera forza lavoro attiva, e questo rispetto a una popolazione totale cresciuta soltanto del 10 per cento, fino a circa 11 milioni di persone. Perché una popolazione cresciuta soltanto di un decimo avrebbe avuto bisogno di raddoppiare i suoi servitori pubblici?”. La domanda è retorica. La stessa che viene da farsi dopo aver studiato l’andamento di pensioni e altri benefit sociali: “La spesa sociale ha continuato a crescere nei decenni successivi (dopo gli anni 80, ndr), nonostante i cambiamenti demografici e del mercato del lavoro. Nella Grecia pre crisi, la spesa per le pensioni (all’11,5 per cento del pil nel 2005) era tra le più alte dei paesi Ocse (in media a un mero 7,2 per cento). L’età pensionabile ufficiale, in Grecia, era di 65 anni, ma i pensionamenti anticipati erano diffusi. Soltanto il 44 per cento dei lavoratori tra i 55 e i 64 anni aveva effettivamente un lavoro, a fronte del 52 per cento della media Ocse. Allo stesso tempo, i pensionati che avevano lavorato tutta una vita (cioè fino all’età di 65 anni) ricevevano in media una pensione pari al 96 per cento del loro stipendio precedente, a fronte del 59 per cento nei paesi Ocse”. Per non parlare delle 130 “professioni chiuse” censite nel 2011, per esercitare le quali occorrono licenze, salvo poi godere di una sorta di monopolio statale e quindi di profitto assicurato per legge una volta che si finisce tra i fortunati “insider”. Infine, se non era lo stato a elargire risorse, spesso si è consentito che le risorse potessero essere espropriate nell’impunità. “Come le stesse autorità fiscali ammettono tranquillamente, un terzo dei greci non paga le tasse dovute”. “Poi ci sono le frodi al sistema pensionistico. Nel 2012, il ministero del Lavoro ha reso noto che 40 mila persone avevano incassato benefici previdenziali, in alcuni casi anche per 20 anni. Secondo altre fonti, il numero di queste truffe al sistema pensionistico sarebbe più vicino a 200 mila”. Come ha scritto su OpenDemocracy.net nel 2010 l’investitore greco Aristos Doxiadis, dunque, “quasi tutti i greci, dai grandi industriali ai piccoli proprietari terrieri sulle isole, fino agli impiegati municipali nei paesini, sono stati portati a credere che fosse naturale avere un qualche reddito che non derivasse né dal lavoro né dal fatto di rischiare il proprio capitale”.

 

Il fatto che questo sistema di redistribuzione così generoso sia sopravvissuto tanto a lungo porta Pappas a discutere il secondo meccanismo che ha tenuto in piedi la democrazia populistica alla greca: il sistema dei partiti, o più precisamente il suo “bipartitismo polarizzato”. Dove la polarizzazione, a differenza di quanto avviene in stati divisi al loro interno da cleavage religiosi, etnici, regionali o di altro tipo, “è stata invece una forma di polarizzazione strategica, perseguita deliberatamente da partiti pragmatici e in competizione per afferrare lo stato da soli e controllare le sue risorse. A questo scopo, ciascun partito ha avuto un incentivo ad accrescere il livello di polarizzazione, mentre tentava di conquistare gli elettori non ideologizzati e più ambivalenti nel centro dello spettro politico attraverso vari incentivi. Questo non ha soltanto plasmato forme di solidarietà interne al gruppo; ha accresciuto anche l’insicurezza dell’opposizione politica e quindi le chance di una sua frammentazione”. Il fatto è ancora più curioso perché, a differenza di quanto avviene nei tradizionali regimi bipartitici (vedi il Regno Unito o gli Stati Uniti, per esempio), dove i partiti seguono una tendenza centripeta e vedono premiata la moderazione ideologica, “nonostante il suo format a due partiti, il sistema greco ha messo in mostra meccaniche polarizzanti, che hanno permesso agli attori politici di dipingere la società come se fosse divisa in due campi politici, ciascuno somigliante a una comunità maggioritaria e molto compatta costituita per negare la legittimità di quella opposta. Risultato: il centro – nel duplice senso di partiti centristi e di ideologie e scelte politiche moderatamente liberali – è caduto in disgrazia. Ciò che è rimasto è stata una competizione estremizzata tra gruppi rivali di forze populiste che ogni volta gareggiavano l’una contro l’altra per rappresentare ‘il popolo’”. Pappas a questo punto attinge alle ricerche del politologo italiano Giovanni Sartori, oggi editorialista del Corriere della Sera: Sartori “ha descritto un sistema di ‘pluralismo polarizzato’ che include una prevalenza delle tendenze politiche centrifughe su quelle centripete, e una opposizione irresponsabile che si rafforza seguendo la politica dell’‘offrire di più’ o del ‘promettere di più’. Il risultato è un nuovo tipo di sistema partitico che si sviluppa nelle democrazie populiste e che in questa sede è chiamato ‘bipartitismo polarizzato’”. Dove la tendenza classica del populismo, quella di “ridurre tutta la politica a una sola dimensione di conflitto, la sua enfasi sulla polarizzazione deliberata e la sua ricerca di un predominio maggioritario”, prevale sull’effetto moderatore del bipartitismo classico.

 

A crisi debitoria già scoppiata, l’ex vicepremier socialista Theodoros Pangalos ha una volta riassunto gli effetti di tutto questo sistema istituzionale come il classico caso di una “tragedia dei beni comuni”, o “crisis of the commons”: “Tutti noi greci abbiamo mangiato insieme – disse nel novembre 2010 – seguendo una pratica fatta di spregevolezza, corruzione e sperpero del denaro pubblico”. Il problema di questa lettura, replica Pappas, è che in questo caso non è stata colpa di individui tra loro non coordinati, ma di un “sistema politico perfettamente istituzionalizzato”. “La crisi della Grecia è stato il risultato del suo particolare sistema di democrazia populista, cioè una democrazia nella quale sia il partito al governo sia il suo principale rivale sono populisti. Come detto prima, due meccanismi hanno reso possibile che tale sistema durasse per tre decenni: il primo è stata la volontà dello stato di distribuire rendite politiche in maniera più diffusa possibile; il secondo è stato un sistema partitico che ha assicurato l’elargizione diffusa di benefici statali attraverso la rotazione dei partiti al potere”. Ancora: “Secondo la logica di quel sistema, lo stato non era più un promotore imparziale del benessere collettivo, ma piuttosto una risorsa di cui appropriarsi per individui che volevano migliorare il loro benessere privato. Inoltre, a causa dell’alternanza al potere dei maggiori partiti, il sistema era tutto fuorché un gioco a somma zero. In realtà, quasi tutti i membri della società hanno guadagnato a rotazione”. Perché il voto, per tanto tempo, non ha cambiato nulla? “In un ambiente con una perfetta simmetria informativa, ‘principali’ e ‘agenti’ sono diventati un groviglio unico, in un gioco di coordinamento di alto livello teso a sfruttare lo stato, sebbene ciascun gruppo di attori facesse i suoi interessi particolari, o racimolando benefici statali (i principali) oppure restando in carica e al potere (gli agenti). Ironicamente, e in modo piuttosto perverso, all’interno di un sistema simile il riformismo non ripagava. Così in quelle occasioni in cui i partiti, o più spesso singoli politici, erano coraggiosi a sufficienza per introdurre un’agenda riformatrice che volesse promuovere l’interesse generale invece degli interessi particolari, questi venivano penalizzati al momento delle elezioni”. La crisi economica e finanziaria, secondo il politologo Pappas, ha inceppato e distrutto i meccanismi che garantivano il perdurare di questo regime democratico-populista. Ma sparare sul messaggero, impersonato in questo caso dagli investitori e dai mercati internazionali che non hanno più creduto alla sostenibilità finanziaria di questo tipo di politica, non consentirà comunque ai greci – così come a molti europei – di fuggire ancora per molto tempo dalle profonde disfunzionalità e ingiustizie dei loro sistemi politici.

 

Takis S. Pappas è professore di Politica comparata all’Università della Macedonia, Marie Curie Fellow all’Istituto universitario europeo (Eui) di Fiesole. Quelli pubblicati sono stralci di un articolo apparso sull’ultimo numero del Journal of Democracy, rivista edita dal National Endowment for Democracy, fondazione finanziata dal Congresso statunitense, e dalla Johns Hopkins University.

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