Il crollo delle due Sicilie

Pietrangelo Buttafuoco

Delle Due Sicilie che fu se ne sono ricavate una città e una regione. Oggi, di quel che fu il Beatissimo Regno del Borbone restano – come spiccioli tra le dita – Napoli e la regione siciliana. La storia è sempre e soltanto una lunga durata, e va bene, ma il ragionare secondo le grosse linee intorno a quel che fu il viceregnale dominio fa torto all’urgenza. Le Due Sicilie, oggi, sono solo quelle di Palazzo San Giacomo, presso il Maschio Angioino – dove sta il sindaco, Luigi De Magistris – e poi Palazzo d’Orleans, sede del governo di Sicilia, domicilio attuale di Rosario Crocetta, il presidente.

    Delle Due Sicilie che fu se ne sono ricavate una città e una regione. Oggi, di quel che fu il Beatissimo Regno del Borbone restano – come spiccioli tra le dita – Napoli e la regione siciliana. La storia è sempre e soltanto una lunga durata, e va bene, ma il ragionare secondo le grosse linee intorno a quel che fu il viceregnale dominio fa torto all’urgenza. Le Due Sicilie, oggi, sono solo quelle di Palazzo San Giacomo, presso il Maschio Angioino – dove sta il sindaco, Luigi De Magistris – e poi Palazzo d’Orleans, sede del governo di Sicilia, domicilio attuale di Rosario Crocetta, il presidente.

    Due, dunque, sono le storie finite a coda di topo nelle Due Sicilie e sono i destini di De Magistris e di Crocetta intrecciati nell’isteria di una rivoluzione da ossessi narcisi e recidivi. De Magistris, dunque, è il sindaco dei crolli. E degli autobus senza nafta e dello sfascio di una città.

    Nella solitudine del suo ufficio, De Magistris, guaglione della rivoluzione, è riuscito a guadagnarsi l’unanimità del dissenso. Ha rotto con tutti, infatti. Dall’Istituto Marotta a Roberto Saviano, perfino, tutti sono contro di lui per poi ridursi a strillare: “Ecco, è la camorra!”. Così come ha fatto davanti alla borghesia che gli scende in piazza: “E’ la camorra!”.

    Due di due sono naturalmente i diavoli a cui tocca tutto in questa storia a due. E se a Napoli fanno gli imbrogli, a Palermo – si sa – li sbrogliano. Ma con un altro esorcismo: “Ecco, è la mafia”. Qui trionfa Crocetta che è l’esperimento più riuscito di Klaus Davi, il facitore di fenomeni dell’immaginario. E la Sicilia di oggi, allettata più che allertata alla rivoluzione del megafono (il simbolo di questo strano gagà), è diventata il laboratorio dove fa testo l’egopatia di un vanesio e nulla più.

    Tinto in testa, pronto per la telecamera, Crocetta incrocia a Montecitorio il Cav. Silvio Berlusconi e – per solidarietà di cosmesi, di certo – si fanno tutto un coccodè reciproco per gorgogliare facezie, motteggi, barzellette e risate al punto che non ci cimentiamo più nella critica bensì nella perfidia: nero sopra nero non tinge, la politica è precipitata nella mascherata ma di Crocetta, si sa, è uno il cui interesse è fare un’intervista o una conferenza stampa. Meglio ancora tutte e due. Ogni giorno. E dire: “E’ la mafia”.

    Non si può attribuire ogni male alla camorra, anche se serve al mito che ogni rivoluzionario fa di se stesso, e vedere poi, in ogni scippatore, un affiliato. Anche la camorra risente della crisi e ha introdotto da tempo il lavoro flessibile. Ci sono i co.co.pro. del Sistema, che sbrigano faccende occasionali e specifiche: dallo spaccio all’omicidio. Volta a volta, senza essere organici.

    Non si può neppure pensare che la mafia sia una specie di centrale autoreferenziale, anche se serve al mito che ogni rivoluzionario fa di se stesso, se poi Crocetta, nel suo libro, davanti a un’adorante telecamera o a un sorridente Pietro Grasso (che è per lui quasi un vice Klaus Davi, però sorridente) si racconta manco fosse un pallottoliere nella conta di tutti quelli fatti arrestare da lui, tutti nel suo paese, a Gela, quasi ottocentocinquanta malacarne quando Gela – si fa per dire – ottocentocinquanta abitanti non li fa neppure.

    Il mito costa assai. Questo è il fatto. Ha un prezzo politico. In Sicilia, giusto per snocciolare i fatti, l’abolizione delle province non ha fatto altro che moltiplicare le nomine di commissari di fiducia; il bilancio regionale è fatto tutto di artifici prossimi a esplodere nel default; tre milioni di euro, poi, sono stati messi da parte per l’autopromozione del fantastico tra i più fantastici dei governatori “rivoluzionari” e la vicenda del Muos, infine, ovvero il “radar” americano da impiantare a Niscemi, s’affumò. Crocetta aveva garantito che non sarebbe stato installato ma sono già arrivati gli avvocati statunitensi accompagnati da quelli italiani, quelli del ministero della Difesa precisamente e pare che di pizzo, di cozzo e di malandrineria la signora America il suo “radar” lo metterà comunque.

    Il mito costa assai assai. E come ci arrivarono i due a fare così tanto danno è tema ancora acerbo per via di storia. La calda cronaca è però matura e basti dire che è quell’uccello di malaugurio cui s’è ridotto il Pd a pagare pizzo, pazzo e cappiddazzo. Sia nell’uno come nell’altro caso.

    Solo un Pd ridotto alla conta pezzente delle primarie poté consentire il trionfo di questa specie di guardia municipale, ricordate? Comprarono i voti dei bancarellari cinesi per farli votare alle primarie, dopo di che scoppiò lo scandalo, le consultazioni furono annullate e De Magistris, accompagnato dal colonnello Attilio Auricchio, ufficiale dei carabinieri, nominato capo gabinetto (in un certo senso, è il suo Klaus Davi), arrivò in pompa magna per riuscire dove Napoli stessa non è riuscita nel suo stesso sfascio. Certo, il sindaco levò l’immondizia. Ma solo per farla viaggiare all’estero. A caro prezzo.

    Tutto ha un costo. Il lungo viceregno postcomunista di Antonio Bassolino a Napoli, che ha blandito imprenditori e intellettuali con feste e farina (forse senza forca), e saltiamo a piè pari lo strascico della Rosa Russo Iervolino, ha lasciato il posto a questo supervigile urbano che pure vorrebbe ma non ha più un euro e non potendo elargire o grandeggiare libera il lungomare dalle auto, porta la Coppa America a Napoli e fa le piste ciclabili, anche se poi succede che lungomare e Villa Comunale diventino talora la Piedigrotta di microdelinquenza serale.

    Tutto ha un risvolto e il solo grande risultato economico e sociale riuscito in questi anni a Napoli è il “Napoli”, tirato su dagli inferi da Aurelio De Laurentiis, che è stato capace di tenere persino in fair play finanziario regalando sogni persi dall’epoca di Diego Armando Maradona. Meriterebbe un monumento a piazza Municipio…

    Peggio di Napoli sta la povera Sicilia, tutto si paga e solo un Pd ridotto a essere il parco giochi di un dissimulatore (e non è certo Crocetta, né Klaus Davi) può farsi carico di una responsabilità, quella di essere riuscita a fare peggio del peggio già sperimentato nel precedente governo regionale. Senza considerare però un fatto. Molti imbecilli che stanno oltre lo Stretto non lo vogliono notare ma un elemento di continuità tra il peggio che già c’è stato e il peggio in corso, c’è, ed è quel Pd che fu, con Giuseppe Lumia in testa, il più professionista dei professionisti dell’antimafia, regista occulto dell’alleanza con gli “autonomisti” del predecessore di Crocetta.

    Peggio di Napoli sta la povera Sicilia e non si può gridare all’emergenza perché, con Crocetta – l’eroe dei talk show più glamour, un gradino sotto Saviano, stanno operando i buoni e non i cattivi. E pure i cattivi, in Sicilia, si adeguano alla furbizia dei buoni. Pagano pegno alla mascherata. Giusto a proseguire lo schema collaudato con il predecessore di Crocetta. Si fecero – lo ricordate?–  le giunte di governo sotto il manto protettivo della magistratura militante. Oggi, in continuità, si ripete la bozza. Il predecessore di Crocetta si mise sotto l’ombrello di Massimo Russo, già pm. L’attuale governatore, invece, dopo aver tentato di prendersi Antonio Ingroia s’è comunque messo sotto il baldacchino di Pietro Grasso, seconda carica dello stato, certo, ma più certissimamente ancora il monumento dell’antimafia al quale Crocetta destina il sottinteso dei sottintesi: “Totus tuus ego sum Rosario, detto Saro!”.

    Peggio di Napoli sta la povera Sicilia perché una cosa è ereditare Bassolino, che resta nella storia, un’altra è farsi democristiano, anzi, fare peggio. Continuità dunque. Aggiornata però con il sistema delle “assessorine”. Crocetta che è un professionista rispetto al suo predecessore si circonda solo di personaggi più che di persone, affrontando anche il rischio di cortocircuiti quando la libertà d’azione di questi prende il sopravvento sulla bottega. E’ già successo con Franco Battiato cacciato con un incredibile pretesto – le troie in Parlamento, ricordate? Crocetta, furbo, lo ha prontamente sostituito nominando la propria segretaria personale, Michela Stancheris. “Un’altra assessorina” appunto. Un uccellino ci ha detto che la stessa sorte di Battiato – la stessa di Antonio Zichichi, buttato fuori anche lui – la rischia nientemeno che la giovane figlia di Paolo Borsellino, Lucia, assessore alla Sanità. E comunque questo precipitare di personaggi quando s’arrischiano a diventare persone non procura ansie a Crocetta perché in continente, qualche imbecille, ancora ci crede alla rivoluzione. Ed è quella che s’appalta l’impunità nel fare lo stesso e peggio di ciò che si faceva prima ma con la torva tintura di un’ideologia della legalità – il vittimismo fruttuoso che dà immunità, quello delle auto di scorta offerte in ostensione quali stimmate di santità – da piegare alla strategia della clientela. Le assessorine, infatti, soccorrono la strategia negli assessorati più delicati. Sono quelli “di spesa”. Sanità e Formazione, infatti, si prendono l’ottanta per cento del bilancio. E poco importa che capiti il contrappasso e cioè che alla Formazione, delicatissimo tasto in quella landa di stipendiati, ci sia l’assessorina Nelli Scilabra, anni 27, ancora in attesa di laurearsi perché fuori corso all’università, va da sé…

    Altra giovane bella e inesperta. Inesperta come una grillina e dietro la quale Crocetta ha piazzato, va da sé, i suoi uomini di fiducia. A cominciare da Antonio Malafarina, ex vicequestore di Gela, che Crocetta si è portato con sé alla regione e ora lo tiene lì a guardia del feudo come i baroni facevano con i soprastanti. Un altro Klaus Davi?

    Peggio di Napoli sta Palermo ma cosa non è successo a Partenope, madre di Due Sicilie?
    Tutto accadde in quell’età spaventosa di sovversione e inganno. E fu come se a un certo punto Abbeville si facesse di Parigi un sol boccone. Fu come se la sardina s’inghiottisse un tonno. Cosa impossibile in natura, questa, ma non per la catena alimentare delle città dove – a un certo punto, come fu con Tebe che si ingoiò Sparta – fu che Torino, una città di provincia, si ingollò Napoli, la capitale.

    Certo, il Rettifilo a Napoli non ebbe a chiamarsi mai “Corso Re d’Italia”. Fu una pensata dei piemontesi, questa. Non c’è angolo di Napoli, infatti, dove con ossessione da Cln non venga imposta la toponomastica redentrice dei savoiardi. Essendo però quella la denominazione di un titolo, come a voler dire “corso Sindaco di Napoli o corso primo Presidente della Cassazione” (“Funiculì, Funicolà” di Giovanni Artieri lo racconta), la strada dritta e ben larga restò Rettifilo e basta. Una forma di intima fedeltà, questa, al marchio borbonico per tramite d’ironia. Come, al contrario, il dare nomi dal senso opposto: c’è il celebre “vico del Sole”, dove il sole non arriva mai.

    La sardina, in ogni modo, si pappò il tonno. E tutto quel bolo – quell’aggrumare di casoni a sei, sette piani tra gli scaracchi liberali – venne masticato a forza di Cavour, camorristi e garibaldini, per diventare la massa fecale che ancora oggi si spalma tra i detriti sociali e culturali di una capitale umiliata da sempre e per sempre.

    Ecco perché Abbeville. Fosse successa la stessa cosa sulla Senna, oggi, a Parigi, ci sarebbero un De Magistris e un cardinal Sepe. E la capitale di Coco Chanel e di san Luigi, sarebbe tutto un pittoresco brulicare di protesta, paglietta e delinquenza e la “delicatezza”, a Parigi, oggi l’avrebbe solo in un remoto motto, in uno sguardo o in un passo rivelatore così come a Napoli – sempre oggi – la sua grandezza torna in un dettaglio: in una tavola imbandita, nella grazia di una ballerina del San Carlo, nell’aristocratica alterigia dell’ultimo dei suoi scugnizzi.

    Il grande tenore Enrico Caruso, da quando litigò con la sua città, soleva dire: “'O presebbio è bello, ma ’e pasture so’ malamente”. Un tempo il giovane medio borghese napoletano disprezzava Nino D’Angelo e Mario Merola, oggi invece – spiega Francesco Palmieri, autore di un libro sublime, ovvero “Il Libro napoletano dei Morti”, Edizioni Mondadori – “il modello anche esteriore di molti ragazzi vomeresi è l’anthropos neomelodico. La borghesia, che ha dato le parole ai lazzaroni facendo diventare pure l’imprecazione più truce poesia, quadro, canzone, filosofia, ha completamente abdicato e addirittura segue – in gran parte – le tendenze subculturali delle periferie, ne accarezza la violenza che teme, ne assume le tipologie dialettali che hanno sempre meno a che vedere col napoletano idioma di Russo, Di Giacomo, Viviani e anche con il mezzo dialetto eduardiano. Francesco Durante ricorda che la borghesia napoletana, di destra o di sinistra, fino a qualche decennio fa produsse una folla di professionisti e persino di politici che mandavano a mente l’Ape latina e avevano minimo letto un migliaio di libri. Successivamente però l’unica patente di rispettabilità sociale sono stati i guadagni materiali e le conseguenze risultano tragiche”.

    Alianello fece dire agli eroi di Gaeta, in quel romanzo complementare al “Gattopardo” che è “L’Alfiere”, che se gli altri combattono e muoiono per conquistare terre o idee di gloria, i napoletani muoiono per “una cosa di cuore: la bellezza”. Il grande Giuseppe Marotta, di cui ricorre il cinquantenario della morte, il quale fu troppo snobbato, disse una cosa fondamentale: “A Napoli un’idea è sempre una persona”. Chi impersona questa idea di capitale, di bellezza possibile? Lo chiedo a Palmieri: “Per me non c’è alcun dubbio: è il principe Carlo di Borbone, legittimo erede di re Francesco II. Che lo si chiami a Napoli, che ne diventi sindaco, governatore plenipotenziario o il monarca morale. Alla borghesia e ai lazzaroni manca un sovrano. Questa, piaccia o no, è la triarticolazione dumeziliana di Napoli”.
    Peggio di Napoli sta la povera Sicilia diventata – perdonate se il carico da undici lo riservo alla carne mia – sempre più fogna con la sua Palermo incoronata dall’immondizia per essere a ogni ora un verminaio di cortei, di furie e di abbandoni. Tutto nel frattempo che il suo viceré, la creatura di Klaus Davi, come un destriero tronfio avanza sotto i riflettori dei talk show del continente come un tempo, nei paesi, per la festa di Sant’Isidoro, il ciuccio veniva vestito a festa.

    Ed era proprio una bella festa: imbastito al meglio, l’asino – o la giumenta trionfante – se ne stava in mezzo alla strada maestra con il coprisella colorato e i finimenti lavorati, dondolanti e allegri, con le testuzze di turco (le sfere in corda su ogni bardatura) che procuravano orgoglio e allegria all’asino e tanta soddisfazione e onore al villan padrone, l’occulto regista che in questo caso non è, appunto, Klaus Davi, bensì quell’altro: l’astuto Lumia, ovvero, il professionista più professionista dell’antimafia.

    P.s.
    Praticamente Lumia è un Antonio Ingroia più che riuscito. Un Klaus Davi all’ennesima potenza. E’ uno che barda gli altri di vanità, lui si prende il carico della fruttuosa fatica: il potere. Di impunità e immunità invincibile. Quella dei buoni. Ed è buonissimo assai. Il famoso paradiso abitato dai diavoli delle Due Sicilie lui lo ha ribaltato: quanto meno in Sicilia ne ha fatto un inferno abitato da angeli appaltatori. Di clientele, ops, di obbedienze. Per conto del ciuccio da parata, oggi. Così come del predecessore di Crocetta, ieri.

    • Pietrangelo Buttafuoco
    • Nato a Catania – originario di Leonforte e di Nissoria – è di Agira. Scrive per il Foglio.