Nei consessi internazionali va in scena l'assalto a Bruxelles

Domenico Lombardi

Il rialzo delle Borse europee di ieri, secondo molti analisti internazionali, è da attribuire ai segnali positivi arrivati dal G20 di Washington di questo fine settimana, dal quale è giunto un “via libera” alle misure di rilancio tutt’altro che ortodosse adottate dal Giappone e in primo luogo dalla sua Banca centrale. Non a caso l’indice Nikkei, nella giornata di ieri ha toccato un picco di 13.611,58 punti, un record da cinque anni a questa parte. Piazza Affari, influenzata in parte anche dallo scenario politico forse in via di stabilizzazione dopo la rielezione del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha chiuso meglio delle altre Borse europee (a più 1,66 per cento).

    Il rialzo delle Borse europee di ieri, secondo molti analisti internazionali, è da attribuire ai segnali positivi arrivati dal G20 di Washington di questo fine settimana, dal quale è giunto un “via libera” alle misure di rilancio tutt’altro che ortodosse adottate dal Giappone e in primo luogo dalla sua Banca centrale. Non a caso l’indice Nikkei, nella giornata di ieri ha toccato un picco di 13.611,58 punti, un record da cinque anni a questa parte. Piazza Affari, influenzata in parte anche dallo scenario politico forse in via di stabilizzazione dopo la rielezione del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha chiuso meglio delle altre Borse europee (a più 1,66 per cento). Per il resto comunque, un po’ come nelle attese, gli incontri ministeriali di questo fine settimana del Fondo monetario internazionale e del G20 sono passati senza quasi lasciare traccia, sia pure con qualche rilevante eccezione.
    Sorpresi dall’attacco “intellettuale” subìto agli incontri di Tokyo dello scorso ottobre dal Fmi, che aveva criticato l’impatto recessivo delle politiche dell’Eurozona, gli europei si sono presentati a Washington a ranghi serrati e con pochi ma precisi messaggi finemente concordati ben prima di arrivare nella capitale americana. Anche la strategia di comunicazione sembra essere stata preparata con cura. Per la prima volta nella cornice di questi incontri ministeriali, la formazione compatta dell’Eurozona – la Commissione, l’Eurogruppo, la Banca centrale europea, il Meccanismo di stabilizzazione e il Fondo salva stati (Esm ed Efsf), e persino la Bei – ha rivendicato apertamente la straordinaria capacità di risposta alla crisi che sta mettendo in ginocchio tutto il sud Europa. I risultati positivi che l’inedito quintetto ha esposto a Washington, nelle sedi ufficiali, ma anche alla Brookings Institution davanti a una platea incredula, si possono sintetizzare in poche righe: l’introduzione dell’Efsf e, successivamente, dell’Esm; la messa a punto del programma Omt (Outright monetary transaction) da parte della Bce; l’adozione del Fiscal compact da parte di 25 governi dell’Ue; il rafforzamento della capacità creditizia della Bei; e infine i progressi sull’unione bancaria che ne lasciano prevedere l’introduzione nella metà del prossimo anno. Nel complesso, l’insieme di questa piattaforma testimonierebbe il crescente attivismo dei governi e delle agenzie europei e, automaticamente, la sua efficacia. La credibilità del messaggio è stata blindata, nelle intenzioni dei latori, omettendo, in primo luogo, qualsiasi riferimento alla drammatica situazione di crescita delle economie meridionali e alle implicazioni sociali e politiche che sta generando. Pertanto la contrazione in atto viene definita “stabilizzazione” dalla Commissione che preferisce parlare di come l’aggiustamento in atto sarà preludio a una grande stagione di crescita nel futuro remoto dell’Eurozona.

    Naturalmente, l’aggiustamento di cui si parla è quello delle economie del sud Europa, le quali sospinte da una contrazione sostenuta dei redditi hanno ridotto le importazioni e, in risposta alla caduta della domanda domestica, accresciuto le esportazioni, azzerando i deficit delle loro partite correnti. D’altro canto l’aggiustamento del nord Europa tarda a venire e gli avanzi di conto corrente, equivalenti alla domanda che questi paesi sottraggono all’economia mondiale, si attestano su una cifra vicina ai 350 miliardi di euro, includendo anche le economie nordiche che non appartengono all’Eurozona. Solo per la Germania, il Fmi prevede per l’anno in corso un avanzo corrente pari a oltre il 6 per cento del pil; per la Cina il corrispondente valore è del 2,6 per cento. Non è un caso che il comunicato della commissione ministeriale del Fmi registri che “occorre fare di più per ridurre le fonti strutturali di tali squilibri. Per agevolare il riequilibrio, i paesi in deficit devono continuare ad aumentare il loro risparmio e le economie in surplus devono alimentare la domanda interna”.
    Quando proprio messo alle strette, il quintetto ha mandato avanti il presidente della Bei, accreditando implicitamente la versione che la banca può essere la risposta ai problemi di crescita, proprio ora che gli azionisti hanno aumentato il capitale di 10 miliardi di euro. Nessuna falla nel ragionamento è stata ammessa: così, quando a un membro del consiglio direttivo della Bce è stato chiesto se l’attribuzione del ruolo di supervisione bancaria non crei un conflitto di interesse per l’Eurotower nell’ambito della Troika, lui ha risposto semplicemente: “Non vedo il bisogno di cambiare l’attuale modello”, e poi è passato alla domanda successiva.
    L’ultimo pilastro di questa strategia richiede evidentemente di attaccare gli interlocutori a scopo cautelativo, nel tentativo di azzerare la discussione sin dalla partenza: ecco che il ministro delle Finanze tedesco ha dunque cominciato il suo discorso alla commissione ministeriale del Fmi puntando il dito sugli Stati Uniti che dovrebbero “attuare un piano di consolidamento fiscale ambizioso” per ridurre un livello del debito rispetto al pil che “in molti casi ha raggiunto livelli insostenibili” includendo anche il Giappone.

    I numeri che Washington può sfoderare
    Com’è noto, quest’anno gli Stati Uniti effettueranno un consolidamento fiscale di quasi l’1,8 per cento del pil, “troppo” dice invece il Fondo monetario. L’aspetto più importante è che, per la prima volta dallo scoppio della crisi finanziaria internazionale, la domanda privata negli Stati Uniti si sta rinvigorendo, riflettendo un graduale miglioramento delle condizioni del credito, del mercato immobiliare e del settore delle famiglie. Il neo segretario al Tesoro, Jack Lew, può finalmente affermare che l’economia americana si è “espansa per 14 trimestri di fila”, che “il settore privato ha generato quasi 6 milioni e mezzo di posti di lavoro nei 37 mesi passati”. Al contrario “una domanda interna debole ha compromesso la crescita dell’Eurozona per sei trimestri di fila e il suo pil continua a contrarsi”.