Politica impotente, ma l'Italia (in Borsa) piace anche all'estero

Ugo Bertone

I primi a scendere in campo, subito dopo le elezioni, sono stati gli analisti del Credit Suisse con un report dal titolo “Italia, la situazione non è così brutta come sembra”. I prezzi in Borsa delle aziende italiane, si leggeva, sono i più bassi d’Europa. E l’esperienza insegna che le turbolenze politiche “rappresentano una buona occasione per fare acquisti, non per vendere”.

    I primi a scendere in campo, subito dopo le elezioni, sono stati gli analisti del Credit Suisse con un report dal titolo “Italia, la situazione non è così brutta come sembra”. I prezzi in Borsa delle aziende italiane, si leggeva, sono i più bassi d’Europa. E l’esperienza insegna che le turbolenze politiche “rappresentano una buona occasione per fare acquisti, non per vendere”. Quaranta giorni dopo, il quadro non è cambiato più di tanto: l’incertezza politica è cresciuta, smentendo le previsioni degli gnomi (“i maggiori partiti hanno grande convenienza a cercare un compromesso”, s’azzardavano a prevedere gli analisti della banca), la forbice tra l’andamento dei mercati internazionali, in forte rialzo, e Piazza Affari si è allargata. Ma non troppo. A dimostrazione che i compratori, a certi prezzi, non mancano, anche se le banche di casa nostra non hanno né voglia né capitali per sostenere operazioni in Piazza Affari. Di qui il sospetto che il consiglio degli esperti del Credit Suisse (ma anche di Barclays, per citare un altro nome) non sia caduto nel vuoto. La conferma è arrivata, nel giorno della nomina dei “saggi”, dall’articolo di Brett Arends sul Wall Street Journal: “Why Italy Looks Cheap”. Certo, si chiede l’analista, davanti a crisi politica, debito, recessione che morde “sarebbe da pazzi investire in Italia. O no?”. E qui gli argomenti sono gli stessi della banca svizzera: i prezzi sono molto convenienti, le crisi, in genere, offrono opportunità. Soprattutto se di mezzo ci sono quei pazzi di italiani che riescono a farsi del male nonostante numeri che, tanto per fare un paragone, sono assai migliori di quelli francesi: un surplus di bilancio prima degli interessi, bilancia commerciale e dei pagamenti in nero, un sistema pensionistico in sicurezza. Insomma, una volta messe da parte le chiacchiere, i numeri suggeriscono un bel “buy”, ovvero “comprare”. O, per dirla con Holger Schmieding, chief economist della Berenberg Bank di Amburgo, che gestisce un portafoglio da 30 miliardi: “L’Italia non andrà a gambe all’aria, e l’economia comincerà a riprendersi durante l’estate. La situazione politica è un macello, ma si tratta del solito macello, e il paese saprà conviverci”. Insomma, se si tratta di far quattrini, i gestori tedeschi non nutrono le perplessità della Bundesbank, la Banca centrale tedesca. Non a caso, sul tavolo di Finmeccanica, i nuovi vertici troveranno in bella evidenza l’offerta di Siemens per Ansaldo Energia. Le case d’affari moltiplicano gli studi in vista di una possibile (ma lontana da venire) uscita di Eni da Saipem. Il Cane a sei zampe, “la Exxon Mobil italiana”, secondo il Wall Street Journal, è in cima alla lista di gradimento delle gradi case di investimento. Barron’s, il settimanale finanziario più autorevole di Wall Street, dedica nell’ultimo numero un lungo servizio su Stm, la joint venture italo-francese dei chip, trattata come una sorta di “affare del secolo” dopo il tramonto dell’alleanza con Ericsson. Goldman Sachs, intanto, alza il suo giudizio su Prysmian, l’ex Pirelli Cavi, una delle poche public company di Piazza Affari.

    Certo, non tutti la pensano così. “Abbastanza spesso i nostri clienti, a partire dai grandi gestori, ci chiedono: ma perché avete voglia di coinvolgervi così tanto in un paese come l’Italia?”. A tutti loro Joseph Oughourlian, cofondatore e amministratore del fondo activist di New York Amber Capital, risponde con un numero: dal novembre 2009 a oggi, i nostri 500 milioni investiti in Italia hanno reso in media il 15 per cento. Mica male, se si pensa che nel frattempo la Borsa italiana ha perduto più o meno il 30 per cento. Oggi, aggiunge il finanziere che ha fatto scatenare le indagini giudiziarie su Fondiaria Sai e Parmalat, Amber possiede (con un buon guadagno) pacchetti in Impregilo, Parmalat e Save. “Io credo che in Italia si possano fare dei bei quattrini – ha detto Oughourlian in un’intervista del Financial Times – Anzi, mi spingo a dire lo stesso per il Portogallo e la Spagna. Il motivo? Penso che finalmente sia arrivata l’ora delle riforme”. Ma attenzione, mister Oughourlian, abituato a battersi con i poteri forti del nostro paese (vedi Mediobanca), fin dai tempi della Telecom Italia tronchettiana, non pensa alla Carta costituzionale o ad altri riassetti epocali. Certo, è necessario liberalizzare l’economia e, ancor più urgente, mettere la giustizia civile al passo delle esigenze dell’economia. Ma il paradosso, spiega il suo braccio destro in Italia, Umberto Mossetti, è che le leggi per proteggere le minoranze e assicurare una gestione societaria adeguata agli standard di mercato, in Italia, ci sono. Anzi, “sono tra le migliori del mondo”. Ma, dato l’andazzo familistico che domina il paese, spesso si riducono a essere “la foglia di fico” dietro cui finti indipendenti e periti compiacenti continuano a fare gli interessi delle maggioranze. I salotti, insomma, non ci sono più. Ma i comportamenti restano quelli di sempre. In banca, soprattutto. E’ questo il settore più depresso ma anche il meno appetibile, visto che le Fondazioni non intendono, per ora, mollare la presa. Ma l’ora X, secondo molti analisti, ormai è vicina: in Monte dei Paschi ci vogliono quattrini e alleanze strategiche. Difficile che Alessandro Profumo, presidente della banca senese, possa trovare un partner del genere entro i confini nazionali.

    Il quarto capitalismo sempre competitivo
    Ma la corsa al “saldo Italia” non riguarda solo le (poche) grandi imprese o le società quotate in una Borsa che (tutta assieme) vale poco più della metà della società Apple. Al di sotto è partita la corsa a quel che resta del tessuto industriale di casa nostra: alimentare, abbigliamento in generale e lusso in particolare, arredamento e meccanica. Quel tesoro del quarto capitalismo che, secondo un’indagine di R & S Mediobanca, non ha nulla da invidiare al tessuto di Francia e Germania, salvo il trattamento fiscale e il costo del credito, quei 3-4 punti di interessi in più che rendono improba la vita delle imprese di casa nostra. La meccanica, ad esempio, che riuscirà ad aumentare l’export anche nel 2013, anno durissimo come il 2012. Ma non tutti ce la faranno, tra ritardi dei pagamenti dello stato e costo del denaro. E’ lì che può far breccia il discorso dei compratori che arrivano da nord, in grado di gestire la tesoreria d’impresa dal quartier generale, facendosi prestare il denaro a Monaco di Baviera per comprare le aziende made in Italy. Grazie a denari che, spesso, arrivano dal sud Europa in cerca di sicurezza. Sono proprio matti, questi italiani.