Appunti scritti in Adirondack doppia sul libro di Pigi, Silvia e la morte

Bassottina

Vita, desiderio, amore, vecchiaia e morte sono materiali da romanzo o da diario in forma di saggio. Ma possono occupare, colonizzare e fecondare con eleganza la memoria recente e viva di un giornalista, di un critico della società, del linguaggio e della cultura civile.

Giuliano Ferrara

Ho sempre evitato la letteratura che documenta le vertigini del sopravvissuto alla morte della persona che dà senso e forma alla vita. Non ne avevo il coraggio.

    Vita, desiderio, amore, vecchiaia e morte sono materiali da romanzo o da diario in forma di saggio. Ma possono occupare, colonizzare e fecondare con eleganza la memoria recente e viva di un giornalista, di un critico della società, del linguaggio e della cultura civile. Lo dimostra un piccolo libro fresco di stampa, privo di altra pretesa che non sia lo scrutinio emozionato e doloroso di una lunga conversazione amorosa tra due italiani borghesi e colti di questo tempo. Il libro parla della “fine del giorno”, è dedicato da un caro amico come Pierluigi Battista a Silvia Provera, ambientalista e poi artista ebanista e, detto alla papalina, “sediara” (una delle seggiole in stile Adirondack da lei disegnate e prodotte in Italia occupa, in una tela di Paul Schulenburg, la copertina). Femmina di rara dolcezza e autorità, Silvia era la compagna di Battista e madre di Marta, oltre che una cara amica di tanti di noi. E’ morta di cancro poco più di un anno fa, ancora maledettamente giovane.
    L’autore è un magnifico lettore di romanzi, e un adepto innamorato ma non fanatico di Philip Roth, che alla seduzione e al suo intreccio con vecchiaia e malattia ha dedicato pagine memorabili per tutti. Quando il cancro è diagnosticato, Battista sta cercando di mettere insieme un nuovo libro, ma questa volta non un saggio di politica o di storia o di cultura astratta. Stavolta il parto editoriale è quello di un bambino capriccioso con i capelli che imbiancano, un breve trattato sul rovello dei cinquantenni e sessantenni, una passeggiata nel museo degli orrori seducenti del Viagra, dell’erezione a comando, del dismorfismo (il sentirsi brutti), della trasformazione dell’organo riproduttivo maschile in un potenziale muscolo volontario, con l’aiuto della chimica. Ne parlava ironico e mattoide come lui è, ne parlava con la sua compagna. Finché ha potuto, prima della precipitazione nel gorgo controllato della malattia, Silvia lo ha messo sul chi vive: attento, farai la figura del vecchio porco, è proprio così che può andare a finire.

    Ecco il punto, la trovata saggistica e ironica, il modo di allontanare e stemperare ogni emozione troppo ravvicinata e rendere interessante per il lettore un autentico prurito esistenziale e letterario messo alla prova della fine del giorno mentre si chiacchiera della fine dei giorni. P. ha incontrato l’abisso del dolore personale mentre rifletteva su desiderio, seduzione e vecchiaia con la donna della sua vita. Di qui nasce un racconto unico, il ritratto di una tragedia nei modi di uno scambio tra maschio e femmina che trabocca urbanità, dignità, pudore e una discreta ma non ovvia, non pomposa, non lenta volontà di resistere e di vivere. Belle, veloci, affettuose senza compiacenza né ostentazione le osservazioni sugli amici, sulla medicina moderna socializzata, sulla funzione della letteratura, nella variante del realismo romanzesco d’ogni tempo e modello, in un matrimonio che non si celebrò mai e sembrava esistito da sempre, il tipico legame della generazione diventata giovane intorno al ’68. Fosse viva, di questo libro Silvia Provera sarebbe contenta, lo troverebbe fair e anche equilibrato, e si darebbe ridendo il merito di aver evitato al suo amato Pigi la figura del vecchio porco, solo annunciata in estrema ipotesi ma non realizzata. Tipa tosta, Silvia, che non leggeva programmaticamente gli articoli del coniuge, o almeno questo della distanza e della non complicità professionale era il patto tra di loro, rispettato o no che fosse. L’altro patto fu osservato con devozione e fede fino all’ultimo minuto.

    Giuliano Ferrara

    Ho sempre evitato la letteratura che documenta le vertigini del sopravvissuto alla morte della persona che dà senso e forma alla vita. Non ne avevo il coraggio, pur ammirando le scrittrici Joyce Carol Oates (“Storia di una vedova”, Mondadori 2011) e ancor più Joan Didion (“L’anno del pensiero magico”, Saggiatore, 2006) sulla morte dei rispettivi coniugi, mariti molto ben recensiti. La prolifica Oates trascura di segnalare che mentre scriveva il libro era, buon per lei, già risposata. Ma “La fine del giorno”, in cui Pierluigi Battista ripercorre con grazia le stazioni della croce portata dalla compagna Silvia Provera, nei quindici mesi tra l’annuncio devastante di un tumore inoperabile e la sua morte prima del Natale, 2011, ha spazzato via l’avversione. P. è la cifra che l’autore usa per sé in questo delicato e asciutto racconto dell’unione interrotta tra giocosi, ironici sposi incapaci di “carinerie” e banalità. P., oltre a essere uno scoppiettante, giornalista e opinionista controcorrente, è umorista sopraffine e sanguigno insieme, capace di rallegrare le anime anche nelle occasioni più solenni e dolorose.
    In questo libro c’è tutto lui: lo straziante e spiritoso ritratto di una donna ironica e anticonformista, che ha portato una condanna a morte con la stessa gagliarda, strafottente combattività con la quale è vissuta. Silvia e P. erano la coppia che metteva di buonumore alla sola idea d’incontrarli. Silvia aveva lo spirito e la sensualità che più mi commuovono: “Una maschiaccia”, la descrive P., e l’adorata figlia Marta ha ereditato, oltre all’amore per i cavalli, la sua pugnace femminilità tomboy, scudo che rimanda al mittente gli sguardi lascivi degli stronzi. Ammiravo in Silvia l’artista pugnace senza sopracciò, la sua lotta con se stessa per forgiare inclinazioni e talenti in un’espressione estetica concreta che l’appagasse. Non sfugge l’ironia amara che l’artista era una cinquantenne in forma smagliante. Apprezzavo molto la scattante, atletica tonicità del suo corpo, l’amore cameratesco per i suoi cani, per la figlia, per P.
    Invidiavo la destrezza manuale dell’ebanista senza arie che creava stupende poltrone Adirondack, la mobilia da giardino ideale, riscoperte e amate da tanti perché uscite dalle sue mani toste e sensibili. Armoniose, con bracciali-appoggio per aperitivi, nate per conversazioni, contemplazioni e pisolini en plein air, P. descrive la loro ruvida eleganza, specchio della loro creatrice.

    E’ addirittura avvincente il racconto dei mesi tra la sentenza inappellabile e la sua esecuzione, intrecciato con il libro progettato sull’arrapata vecchiaia maschile in preda al Viagra, che l’autore molla quando cade la mannaia della prognosi. P. è doppiamente coraggioso: è discreto, diretto e limpido. Parla delle sue reazioni a un colpo annicchilatore e crea un ritratto ironico e malinconico del sé di quel momento, a caccia dei significati profondi dell’idea di seduzione senile. Non sono peregrine le riflessioni sui “vecchi porci”, la trappola contro la quale Silvia lo mette in guardia, non sia mai che nel vivisezionarli P. non venga scambiato per uno di loro. L’apparente divagazione completa il quadro di una coppia dove ognuno custodiva la propria autonomia, lontano dalle smancerie della “coppia complice” che si spalleggia e si compiace. L’avrei voluta accanto in qualunque battaglia, confidando in un’amica e compagna d’armi di razza. Il suo spirito resiste, nell’abbraccio avvolgente delle sue goduriose Adirondack.