Il Conclave, una divina liturgia

Marco Burini

Del Conclave si parla ovunque, ma nessuno lo tratta per quello che veramente è: un rito, una liturgia. Pronostici, candidati e programmi come se fosse un’elezione qualsiasi, mentre in realtà il Conclave è un atto politico solo perché è anzitutto un atto liturgico, e solo in questa chiave può essere capito fino in fondo. La cosa sfugge agli stessi vaticanisti, troppo affannati a disegnare mappe del potere vaticano, o di quel che ne resta. Ma basterebbe sfogliare l’“Ordo Rituum Conclavis”, il libro che contiene i testi delle celebrazioni che accompagnano i cardinali nella scelta del nuovo Pontefice, per capire la sostanza di quel che accade nella Cappella Sistina.

    Del Conclave si parla ovunque, ma nessuno lo tratta per quello che veramente è: un rito, una liturgia. Pronostici, candidati e programmi come se fosse un’elezione qualsiasi, mentre in realtà il Conclave è un atto politico solo perché è anzitutto un atto liturgico, e solo in questa chiave può essere capito fino in fondo. La cosa sfugge agli stessi vaticanisti, troppo affannati a disegnare mappe del potere vaticano, o di quel che ne resta. Ma basterebbe sfogliare l’“Ordo Rituum Conclavis”, il libro che contiene i testi delle celebrazioni che accompagnano i cardinali nella scelta del nuovo Pontefice, per capire la sostanza di quel che accade nella Cappella Sistina. Non è un caso che al centro troneggi il libro dei Vangeli, che all’ingresso i cardinali cantino il “Veni Creator” e le litanie dei santi, che ogni momento sia scandito da orazioni e letture bibliche, e che la stessa procedura di voto sia fortemente ritualizzata: ogni cardinale elettore, “dopo aver scritto e piegato la scheda tenendola sollevata in modo che sia visibile, la porta all’altare” dove è posta l’urna presso la quale pronuncia un solenne giuramento: “Chiamo a testimone Cristo Signore, il quale mi giudicherà, che il mio voto è dato a colui che, secondo Dio, ritengo debba essere eletto” (e tutto questo si ripete a ogni votazione centoquindici volte, tante quante sono gli elettori).

    Questa spiccata ritualità l’ha spiegata pochi giorni fa in un’intervista a Tv2000 l’arcivescovo Piero Marini, cerimoniere di Giovanni Paolo II e, per i primi due anni di pontificato, di Benedetto XVI. “Papa Wojtyla promosse un nuovo rituale perché voleva che il Conclave fosse visibilmente un momento di preghiera, sul modello del primo capitolo del libro degli Atti: gli apostoli e Maria riuniti in preghiera in attesa dello Spirito”. Il Conclave come un nuovo Cenacolo, dunque, un momento forte per la vita della chiesa ha ricordato Marini. “L’apertura di un Conclave costringe la chiesa a pensare se stessa, e a pensare al ministero petrino come fondamento visibile dell’unità. Come accadde alla prima comunità di Gerusalemme che era senza il suo pastore, Pietro, ridotto in catene. Anche oggi manca il pastore, anche se in realtà l’unico pastore è Cristo”. Con il nuovo ordo da lui curato Marini non ha fatto altro che applicare la costituzione conciliare “Sacrosanctum Concilium”, il primo documento promulgato dal Vaticano II che raccoglie i frutti della riforma liturgica della prima metà del Novecento.

    Perché quello che succede sotto le volte michelangiolesche non riguarda un’élite di ottimati ma l’intero popolo di Dio e l’extra omnes è funzionale al silenzio e alla preghiera: è un intra omnes, per chi crede. Anche Andrea Grillo, uno dei migliori liturgisti italiani, laico, docente al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo (l’università dei benedettini sull’Aventino), ci ribadisce l’ancoraggio del Conclave odierno al Concilio. “Con il Vaticano II la chiesa riscopre la liturgia in tutti i suoi momenti, anche i più formali, perché la liturgia garantisce l’irriducibilità tra Regno di Dio e chiesa. La forma liturgica mantiene aperte le sorti della storia rispetto a una chiusura che le diverse ideologie, anche quelle cristiane, tendono a operare”. In questo senso ha una forte valenza escatologica: proietta verso la fine. “Certo, la liturgia è l’eschaton che si rappresenta nella storia e che non si vergogna di prendere una forma umile, concreta. Perciò anche nell’atto ecclesiale che potrebbe sembrare più politico, l’elezione del Papa, il rito sospende l’identificazione del Pontefice con il Signore. Anche nel nuovo pontificato vorremmo risentire le parole che usò Benedetto XVI la prima volta che si affacciò al balcone di San Pietro: sono un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore”. (E a proposito dell’ultimo atto del Conclave, quando il neo eletto si affaccia alla loggia esterna della benedizione, monsignor Marini ha sottolineato come non sia un gesto superfluo, ma l’accettazione che il popolo riunito in piazza San Pietro, il popolo romano, fa del suo vescovo).

    Comunque, affermare che il Conclave è una liturgia non significa negarne il valore politico. D’altra parte la filiazione del sistema politico-economico occidentale dalle forme liturgiche cristiane è un dato culturale acquisito sia a livello divulgativo (basterebbero gli innumerevoli articoli di Filippo Ceccarelli su Repubblica) sia a livello scientifico, ad esempio nella recente produzione di Giorgio Agamben, uno dei filosofi italiani più letti e studiati anche all’estero. Ma la riappropriazione dell’opus Dei messa in atto da Agamben non convince Grillo. “Nei suoi scritti ci sono osservazioni interessanti che però mancano esattamente di quello che ho appena detto, perché riassorbono il liturgico nel politico quando invece il liturgico è l’eccedenza del politico. Quella rituale è una logica insieme più elementare e più alta di quella politica. Agamben parla di efficacia della liturgia ma sempre su un piano operativo, economico e politico appunto, che non rispetta la logica specifica dell’azione rituale che è anzitutto rappresentazione”.

    Il tema della rappresentazione è cruciale, oggi che l’occhio dei media è costantemente spalancato sul Conclave come su tutte le azioni liturgiche della chiesa. “In effetti la rappresentazione in atto nel rito è altra cosa rispetto alla rappresentazione televisiva – osserva Grillo – Per questo si rischia una percezione distorta. Da quando c’è la tv che si occupa di queste cose si è creato un equivoco, cioè che i riti presieduti dal Papa siano esemplari per il resto delle comunità cristiane. Non è così, lo si è sempre saputo, ma l’esposizione televisiva tende a far pensare il contrario, che cioè le forme liturgiche del centro siano da riprodurre tali e quali in periferia. Le cerimonie papali, in realtà, hanno dei vincoli propri e non sono un modello per la chiesa tutta, piuttosto devono adeguarsi a un cerimoniale di curia”. In ogni caso la trasmissione televisiva di una messa pone problemi non da poco: che senso ha? La liturgia non è da partecipare in prima persona? “Credo che il telespettatore non sia catturato solo dal lato spettacolare dell’eucarestia ma in qualche modo si mette in atteggiamento di preghiera. Il dubbio è se il mezzo televisivo non riporti al rito premoderno rinforzando una funzione di tipo clericale dove i fedeli fanno da muti spettatori, come prima del Concilio insomma. Una fruizione individuale e passiva della religione, tipica della società borghese”. Per Grillo la questione è aperta, anzi complicata dai social media. “Cosa succede quando si recita la Liturgia delle ore sullo smartphone oppure si celebra la messa con l’ausilio dell’iPad invece che del messale? Anche in questo caso il mezzo è il messaggio…”.

    Eppure la questione liturgica non sembra affatto urgente, nei programmi per il nuovo pontificato che si leggono un po’ ovunque non se ne parla. Grillo ricorda però che “nella storia della chiesa le riforme sono sempre partite dalla liturgia, senza un piano a tavolino ma in modo molto concreto, adeguandosi a ciò che succede nel mondo. Per questo il vero obiettivo è lasciar parlare il rito piuttosto che renderlo coerente a un’idea astratta di chiesa”.