Il risanamento dell'euro passa per un patto politico con Berlino

Domenico Lombardi

I dati negativi e sotto le attese forniti la scorsa settimana dall’Eurostat avevano indotto qualche aspettativa per una riduzione dei tassi nella riunione della Banca centrale europea (Bce) di giovedì scorso. A fronte di una nuova contrazione dello 0,6 per cento del pil dell’Eurozona nell’ultimo trimestre del 2012, assai più ampia di quelle registrate in tutti gli altri trimestri dell’anno, le autorità monetarie hanno, invece, lasciato invariato il tasso di rifinanziamento allo 0,75 per cento per l’ottavo mese consecutivo.

    I dati negativi e sotto le attese forniti la scorsa settimana dall’Eurostat avevano indotto qualche aspettativa per una riduzione dei tassi nella riunione della Banca centrale europea (Bce) di giovedì scorso. A fronte di una nuova contrazione dello 0,6 per cento del pil dell’Eurozona nell’ultimo trimestre del 2012, assai più ampia di quelle registrate in tutti gli altri trimestri dell’anno, le autorità monetarie hanno, invece, lasciato invariato il tasso di rifinanziamento allo 0,75 per cento per l’ottavo mese consecutivo. Al di là delle dichiarazioni di rito, Francoforte è dunque restia ad appiattire del tutto il tasso segnaletico per non compromettere il già delicato equilibrio economico del sistema bancario dell’Eurozona.

    In realtà il vero problema che i dati e le previsioni di (de)crescita stanno mettendo a nudo, con tutta la drammaticità del caso, è l’assenza di una exit strategy dalla crisi piuttosto che la necessità di una ulteriore riduzione dei tassi. Negli ultimi mesi, l’attenzione si è concentrata sul dibattito in merito all’unione bancaria che, in versione ridotta, vedrà la luce, probabilmente, il prossimo anno. Eppure l’unione bancaria non è la via di uscita dalla crisi, come non lo è l’introduzione del Fiscal compact, ovvero le stringenti regole di bilancio entrate in vigore dal gennaio scorso, e non lo sarebbe nemmeno un’ulteriore riduzione dei tassi di interesse della Bce.

    L’economia italiana e quella dell’Eurozona nel suo complesso hanno bisogno di fonti di domanda per crescere. Le previsioni ufficiali danno l’economia italiana in contrazione per il secondo anno di fila, con probabili revisioni peggiorative in corso d’anno. Tali impulsi di crescita non possono arrivare dagli Stati Uniti, in cui il conflitto tra la presidenza di Barack Obama e il Congresso sta erodendo la spinta propulsiva che l’economia aveva accumulato dalla fine della crisi finanziaria. Non può venire neanche dall’Asia, dove la Cina risente del rallentamento delle economie avanzate e la sua sterzata verso le fonti di domanda interna richiederà i suoi tempi, mentre il Giappone è alle prese con una stagnazione ultradecennale. Deve venire, pertanto, dalla stessa Eurozona.

    Venerdì, in occasione della sua visita a Dublino, Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario internazionale (Fmi), ha dichiarato in modo inequivocabile che bisogna rilanciare la domanda nell’area della moneta unica che è “molto più forte nel nord dell’Eurozona che nel sud”, redistribuendo questo “stimolo” in misura più simmetrica nell’unione monetaria. “Ripristinare una qualsivoglia nozione di equilibrio implica minor inflazione e crescita dei salari al sud, ma anche consentire una maggiore inflazione e crescita salariale in quei paesi che possono permetterselo”. Queste sono parole in codice per indicare la rotta alla Germania e alle economie del blocco settentrionale.

    Boom dell’export tedesco anche a gennaio
    Il giorno prima, quasi per preparare il terreno, David Wessel sul Wall Street Journal, che difficilmente può essere accusato di appoggiare un approccio dirigistico alla politica economica, sottolineava che nell’attuale contesto dell’economia mondiale “affamata di crescita”, essere in surplus nei conti con l’estero equivale a sottrarre domanda a qualche altro paese. Mentre il surplus corrente della Cina, in proporzione al pil, è diminuito dal 10 per cento nel 2007 al 2,6 dell’anno passato, quello della Germania è rimasto su valori relativamente stabili nel medesimo periodo, passando dal 7,5 al 6,4 per cento. Ancora ieri l’Ufficio federale delle statistiche teutonico, Destatis, ha reso noto che la bilancia commerciale del paese ha registrato in gennaio un surplus di 13,7 miliardi di euro, in aumento dai 12,1 miliardi registrati nel mese precedente e comunque sopra le attese degli analisti. Insomma, Berlino procede ancora nella direzione opposta a quella decisa perfino da Pechino. Naturalmente, la distribuzione relativa di surplus e disavanzi correnti riflette differenze di competitività relativa. In tal senso, l’Italia e gli altri paesi del sud Europa devono recuperare un divario che è cresciuto nel tempo a loro sfavore. Il punto è che, in pratica, è impossibile farlo in assenza di un coordinamento a livello dell’Eurozona che preveda un lieve innalzamento del tasso di inflazione tollerato dalla Bce.
    A titolo di esempio, se la produttività in Germania e in Italia crescesse su valori in linea con quelli storici per la Germania, intorno allo 0,7 per cento annuo, e la dinamica del costo del lavoro in Germania si attestasse sull’1,5 per cento, in Italia le retribuzioni dovrebbero contrarsi quasi del 3 per cento ogni anno per recuperare il divario nel giro di un quinquennio. Al contrario, se la crescita dei salari in Germania fosse più sostenuta, diciamo nella misura del 4 per cento l’anno, in Italia le retribuzioni potrebbero rimanere stabili in termini nominali per recuperare il divario di competitività nel medesimo quinquennio. Addirittura, se la crescita nel costo del lavoro in Germania fosse superiore al 4 per cento, in Italia i salari potrebbero lievemente crescere ripristinando una dinamica più equilibrata tra sacrifici e riforme.

    Ovviamente, nell’uno e nell’altro scenario, il prossimo governo dovrebbe in ogni caso mettere in cantiere alcune riforme strutturali tanto importanti quanto necessarie per facilitare la crescita della produttività che, nella nostra economia, è addirittura diminuita nell’ultimo decennio. La differenza tra l’uno e l’altro scenario, tuttavia, sta nel fatto che il primo – quello che passa per una contrazione significativa dei salari italiani – è politicamente non perseguibile, anche se il quadro politico uscito dalle elezioni fosse risultato più stabile: quale governo infatti vorrebbe introdurre riforme che, da un lato, richiedono un aumento della produttività e, dall’altro, impongono di diminuire le retribuzioni in un contesto di già protratta contrazione dei redditi? Dando per buono invece il secondo scenario, va da sé che l’analisi di cui sopra non implicherebbe naturalmente un “pasto gratis” per l’Italia: si tratterebbe di stipulare un “contratto” attraverso il quale la Germania condizionerebbe le sue politiche dei redditi a fronte di soddisfacenti progressi nelle riforme in Italia e in altri paesi dell’Eurozona. Un tale contratto potrebbe essere supervisionato da una terza parte, come la Commissione europea o, ancora meglio, il Fondo monetario internazionale.