Unanimi e divisi

Il Pd stordito spera nella clemenza di Napolitano ma si consegna a Grillo

Alessandra Sardoni

La direzione del Pd finisce con un voto unanime e distratto, le deleghe sollevate in aria da mani che già infilano i cappotti e Rosy Bindi che augura buon viaggio a tutti. Tutto si combina con l’immagine conclusiva della replica di Pier Luigi Bersani: “Siamo su un sentiero molto stretto: o riusciremo ad avere un governo che cambi o almeno sgombreremo il percorso dalla nebbia…”. Un modo soft per chiedere l’incarico almeno esplorativo, molto diverso dall’aut aut pronunciato fino all’altro ieri – “o me al governo o si vota” – e sgradito al Quirinale (c’è stata una telefonata con Napolitano, ieri).

    La direzione del Pd finisce con un voto unanime e distratto, le deleghe sollevate in aria da mani che già infilano i cappotti e Rosy Bindi che augura buon viaggio a tutti. Tutto si combina con l’immagine conclusiva della replica di Pier Luigi Bersani: “Siamo su un sentiero molto stretto: o riusciremo ad avere un governo che cambi o almeno sgombreremo il percorso dalla nebbia…”. Un modo soft per chiedere l’incarico almeno esplorativo, molto diverso dall’aut aut pronunciato fino all’altro ieri – “o me al governo o si vota” – e sgradito al Quirinale (c’è stata una telefonata con Napolitano, ieri). Il segretario ha smussato, ha detto di confidare nella saggezza di Napolitano e ha dichiarato la disponibilità anche a “superare il finanziamento pubblico dei partiti”, come da richiesta renziana rilanciata da Paolo Gentiloni. Che poi significa superare l’isolamento: era rimasto solo, Bersani, contro Grillo, contro Berlusconi, contro Monti. Certo in cambio chiede “trasparenza” e la legge sui partiti che in campagna elettorale aveva perfino messo come uno dei tanti primi punti del primo eventuale Consiglio dei ministri. A fine giornata diventa votabile da tutti – un solo astenuto – lo schema “mai con Berlusconi”, programma in otto punti, pugni sul tavolo in Europa contro l’austerità, conflitto di interessi, ripensamento di Equitalia, reddito minimo, norme anti corruzione, anti casta ecc. Il clima è un po’ funereo, scettico, a tratti surreale. Molti aggiungono punti programmatici agli otto di Bersani, dal femminicidio (Pollastrini), alle sanzioni per chi non digitalizza la Pubblica amministrazione (neo eletta del nord Italia). “La gestione collegiale ci consente di rinviare l’esame delle subordinate”, osserva Dario Franceschini (la parola collegialità non ha mai portato fortuna ai leader del centrosinistra). Anche Matteo Renzi punta al rinvio, al secondo giro. L’ha detto in televisione, a “Ballarò”, e dunque non lo ripete alla direzione alla quale partecipa in via straordinaria, ma in silenzio contrariamente alle voci della vigilia che lo davano pronto a intervenire. “Dov’è Renzi? Dov’è?”, chiede il dalemiano Gianni Cuperlo nel primo pomeriggio, lamentando i rischi del “percorso parallelo” scelto dal sindaco di Firenze.

    Renzi se ne è andato all’ora di pranzo. Non ha votato (come Veltroni, anche lui muto). I suoi spiegano che non c’è polemica, semmai allergia alle liturgie di partito. Renzi sogna Palazzo Chigi, ma solo dopo regolari primarie e regolari elezioni. Le prese di distanza verso Bersani abbondano, ma affiorano altrove. Sono radicali, a cominciare dalla diffidenza per un possibile governo con Grillo. A Renzi non piace l’inseguimento del M5s, non piace l’idea di presentarsi in Europa con un interlocutore antieuropeo. Non piace, lo dice Matteo Richetti, la linea Cgil sul lavoro. Non piacciono, ed è un solco, le titubanze di Bersani sull’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti. Renzi è tuttavia il nome meno pronunciato nella sfilata di interventi. Stefano Fassina polemizza senza nominarlo, e così Matteo Orfini, autore della più netta autocritica, uno dei pochi a pronunciare la parola “sconfitta”.
    Le differenze sul podio del Nazareno sono pronte a esplodere se dovesse fallire, come è probabile, l’esperimento bersaniano. Riguardano le ragioni del voto: a sinistra si accusa la Germania rigorista, il disagio sociale non compreso, il sostegno all’agenda Monti. I liberal veltroniani sostengono il contrario. I renziani deplorano la mancata rottamazione. Tutti temono un governo del presidente che implica un voto distante ma mai troppo dal centrodestra. “Letta e Franceschini sono preoccupati per la tenuta del partito: elezioni subito sono pericolose, ma riproporre una qualsiasi forma di accordo con il Cavaliere è impossibile. Lo hanno detto a Matteo”, sospira un renziano. L’unica è provare a distinguere tra il Cav. e il Pdl. Lo si capisce dall’intervento di Massimo D’Alema, preoccupato per l’impraticabilità di un accordo con la destra causa Berlusconi: “Un dramma, altro che inciuci mai esistiti”. E’ il passaggio rivelatore degli scenari possibili: gli oppositori alle elezioni subito sperano nel timing delle sentenze contro Berlusconi, unica possibilità, teorizzano, di separare il leader del centrodestra dal suo partito.