Il romanzone Quirinale

Alessandra Sardoni

Le cronache cittadine del primo febbraio scorso consegnano alla rete una foto meno istituzionale rispetto allo standard iconografico della convegnistica. E’ stata scattata a Parma, a margine di un seminario universitario sui paesi emergenti, i Brics: Giuliano Amato, sorridente, poggia una mano sulla spalla di Romano Prodi che è in piedi di fronte a lui, guardandolo negli occhi, in segno di complicità, consuetudine (hanno fatto parte dello stesso governo dal 2006 al 2008 tanto per dire la cosa più recente) e affinità antropologica, consapevolezza delle molteplici intersezioni dei rispettivi mondi di riferimento.

    Così è amator di pace chi dissimula con l’onesto fine che dico, tollerando, tacendo, aspettando e mentre si va rendendo conforme a quanto gli succede, gode in un certo modo anche delle cose che non ha, quando i violenti non sanno goder di quelle che hanno, perché nell’uscir da se medesimi, non si accorgono della strada ch’è verso il precipizio”, Torquato Accetto Della dissimulazione onesta, Napoli, 1641
     
    Le cronache cittadine del primo febbraio scorso consegnano alla rete una foto meno istituzionale rispetto allo standard iconografico della convegnistica. E’ stata scattata a Parma, a margine di un seminario universitario sui paesi emergenti, i Brics: Giuliano Amato, sorridente, poggia una mano sulla spalla di Romano Prodi che è in piedi di fronte a lui, guardandolo negli occhi, in segno di complicità, consuetudine (hanno fatto parte dello stesso governo dal 2006 al 2008 tanto per dire la cosa più recente) e affinità antropologica, consapevolezza delle molteplici intersezioni dei rispettivi mondi di riferimento. Prima del grande e forse ingovernabile caos generato dalle elezioni politiche, quel braccio e quella spalla dissimulavano appena la competizione già implicitamente aperta non fosse altro che per l’effetto dei totonomi. A ben guardare, quell’immagine racconta tuttora qualcosa di molto più simile alla stretta di mano che precede un duello o una gara che possa avere un solo vincitore.
    “Prodi? Ha i titoli per il Quirinale”, dissimulava qualche giorno dopo, in altro luogo, Mario Monti non ancora segnato dal flop inserendo il nome dell’ex presidente del consiglio, attualmente inviato Onu per il Mali, in una rosa di papabili con Emma Bonino poi derubricata a lapsus e Giorgio Napolitano bis, rifiutato dall’interessato con nota scritta come avrebbe consigliato il medesimo Torquato Accetto. Anche l’ammissione da parte di Monti che Prodi fosse “titolato” aveva il sapore di galateo cavalleresco prima della battaglia.

    Non c’è partita di potere in cui la dissimulazione sia storicamente raccomandata come quella per la presidenza della Repubblica italiana. Tanto più se coincidente, come in questo caso, con lo spettro allora perfino meno spaventoso della forza arrembante dei new comers grillini.
    Il risveglio con 108 deputati e 54 senatori grillini impone cautele supplementari e scardina schemi al di là del previsto. E tuttavia la successiva reazione (smarrita) dell’Europa intergovernativa, dei mercati, degli investitori e il sopracciglio alzato di Lady Spread ai tre candidati latenti danno la chance o l’illusione del curriculum. E pongono una domanda: quanto contano le relazioni internazionali e più in generale le reti anche nostrane per la prossima e decisiva salita al Quirinale? A sentire i partiti scossi dal successo di Grillo contano, non poco anche nella caccia a un Monti-che- non-sia-Monti possibile soluzione per ora tutta retroscenistica all’ingovernabilità.
    Aspirazioni e autocandidature – latenti, sempre latenti – hanno fin qui lasciato tracce di sé per lo più nei lanci d’agenzia meno frequentati, nelle presentazioni di libri, nelle assenze studiate alle suddette, negli inviti ai seminari, nei titoli delle conferenze, in quella che si potrebbe definire epifania a intermittenza (oltre che vanità) della patente e della visibilità internazionale. Per chi ce le abbia. L’epoca è nuova, lontana comunque dai tempi degli imprimatur classici, Usa e Vaticano eppure più ancora interdipendente nella catena che lega la zona euro, stato nazionale a stato nazionale. 
    “Gli unici tre italiani insieme con Mario Draghi che hanno relazioni internazionali vere sono Monti, Amato e Prodi”, spiega al Foglio un dirigente politico che conosce bene tutti e tre. “Ma chi può dire come si muoverà un Parlamento con una sostanziosa pattuglia grillina?”. I criteri curriculari, è il senso, “varranno solo se si affacceranno altri competitori di diverso e meno alto lignaggio, altrimenti fra loro si equivalgono”, aggiunge. Certo la scommessa sulle carriere a molte stelle si poggia sullo scenario complessivo, la stabilità da garantire all’Europa occhiuta, ai mercati già inquieti, alle società di investimento prima del voto a caccia di sondaggisti italici dopo il voto a caccia di lumi. Varrà ancora l’immateriale concetto della “credibilità” – a Monti è servita elettoralmente poco – nel regime di sovranità ridotta dalla trattatistica europea su conti e fisco mai così stringente dopo il Fiscal compact e ora il Two pack che veglia sulle manovre future? Nel dubbio chi ha delle carte prova a giocarle. Dissimulando. I tre in questione ne hanno alcune in comune, sono stati tutti presidenti del Consiglio, hanno avuto incarichi di peso in Europa, sono stati punti di riferimento per almeno una generazione di grand commis. Sono stati invitati almeno una volta alle riunioni della Trilateral Commission e del Bilderberg. Se poi quest’ultimo sia un atout o il materiale per scivolose mitologie esoteriche è un altro paio di maniche.

    “Se uno dice che non ci tiene nessuno gli crede. Se invece si dichiarasse disponibile tutti gli direbbero: ma a te chi te lo ha offerto?”.   
        Giulio Andreotti 1992


    A Giuliano Amato piace che si sottolinei il suo riconosciuto americanismo. “E’ il più americano dei tre” osserva un accademico che lo conosce molto bene, il dito anzi il cursore che scorre sulla nota biografica tra la Columbia e la New York University dove ha studiato e/o insegnato, fra la presidenza del Centro studi americani, e quella, per oltre otto anni dell’Aspen di cui oggi è presidente onorario. “Amato è sempre stato molto leale nei confronti degli americani, senza cedimenti. Quando a Roma tutti si mettevano in fila sotto la tenda di Gheddafi, da Berlusconi a D’Alema, lui se ne teneva lontano” ricordano nel Pd voci magari amiche, ma attente alle questioni internazionali e diplomatiche.
    Anche in Europa Amato ha le sue reti. E’ stato vicepresidente della Convenzione europea per le riforme che scrisse la sfortunata Costituzione, ma fece approvare una carta di intesa. Vanta amicizia con Jacques Delors ed esperienza alla testa della commissione per i Balcani.
    Quanto a germanismo vale il comunicato della Deutsche Bank del 5 febbraio 2010 che lo nominava senior advisor per l’Italia. Fu ricordato questo ruolo con allusione complottarda quando a Otto e mezzo nel tempestoso autunno 2011 Amato fissò sopra cinquecento l’asticella dello spread che avrebbe fatto sbriciolare la maggioranza del governo Berlusconi. 
    Due volte premier e molte volte ministro, l’ultima dell’interno, Amato vanta rapporti ottimi con il Foreign Office lo attesta il pluriennale ruolo di Chairman al Convegno di Pontignano, luogo delle relazioni anglo italiane che il professore starebbe per lasciare , si sussurra in quegli ambienti, a Enrico Letta. Lo scorso settembre era il ventesimo anniversario, particolare solennità con Napolitano e Monti presenti e grandi sponsor tra i quali Finmeccanica e Montepaschi come naturale svolgendosi il convegno a Siena.
    La senesità di Amato, nel senso sistemico che collega immediatamente al Montepaschi è l’elemento che le voci di palazzo, ritengono possa rivelarsi il punto debole nella corsa per il Quirinale. Il rapporto storico di Amato e di Franco Bassanini con la banca senese, nel momento più difficile viste le inchieste e i bilanci, potrebbe pesare in negativo, dicono i nemici. Ancor di più il legame con Giuseppe Mussari, il banchiere nella bufera dimissionario, testimoniato da apparato fotografico. Ma va pur detto che non c’è esponente degli ex Ds che non campeggi almeno in una foto amichevole, con stretta di mano o pacca sulle spalle insieme all’avvocato calabrese prestato alla finanza e poi diventato il capo dei banchieri italiani. “Mussari è stato nominato a Mps da D’Alema”, ricorda un dirigente del Pd che frequenta Amato. E tuttavia sarebbe sbagliato tirare conclusioni affrettate da queste battute dei luogotenenti dell’uno o dell’altro: a parte le responsabilità da kingmaker di Mussari da rimpallare e l’eco, pare, dello scontro ai tempi della scalata di Unipol sulla Bnl osteggiata da Amato (gli costò il Quirinale si dice, ma lo stesso prezzo lo pagò D’Alema), D’Alema e Amato sono sufficientemente vicini, entrambi fondatori del think tank Italianieuropei.

    Più realistico osservare che la questione Mps incoraggia la prudenza già connaturata allo stile sottile del professore. Sottilissimo quando si tratta di programmare uscite pubbliche. Lunedì scorso ha evitato di mescolarsi ai nomi illustri dell’epoca d’oro e poi buia del Psi, da Claudio Martelli a Sabino Acquaviva che partecipavano, nella sala del Refettorio di San Macuto alla presentazione di un saggio Marsilio dedicato alla fine del Partito socialista. La cura per il dettaglio reputazionale gli ha consigliato di rinviare l’uscita del libro scritto con Andrea Graziosi per il Mulino sulla storia italiana dagli anni ’70 in poi, titolo “Grandi illusioni”. Meglio evitare insidiosi giudizi storici su tempi troppo vicini a quelli attuali. Così in libreria ci sono per ora solo le “Lezioni dalla crisi”, pubblicate per Laterza insieme al giornalista del Sole 24 Ore Fabrizio Forquet.
    Del resto a testimoniare la prudenza ci sono le poche righe in corsivo che Amato premette alla nota biografica del suo blog “di tutto ciò che sono venuto facendo per tre cose sole ho fatto io la domanda, il concorso per essere ammesso al collegio pisano, quello per la libera docenza e il concorso universitario che mi ha portato alla cattedra nel 1970. Tutto il resto l’ho fatto o lo sto ancora facendo perché altri hanno ritenuto di chiedermelo”. Frase perfetta per chi punti al particolare tipo di leadership che si esercita dal Quirinale.
    L’altro termometro relazionale è quello che si misura in gradi di vicinanza o separazione da Mario Draghi. Nessuno nega che sia Amato a custodire i migliori rapporti con il presidente della Bce. Non solo per la storia che vede il primo, direttore generale del tesoro con Amato presidente del Consiglio, ma anche per affinità e legami più estesi e duraturi alimentati, fra il 2001 e il 2006, l’anno di nascita del governo Prodi con l’istituzione di cene periodiche, più o meno bimestrali, per scambi di idee tra commensali più o meno fissi, oltre a Draghi e Amato, Andrea Manzella, Giuseppe De Rita, Antonio Maccanico e Cesare Geronzi, un paio di volte anche Tommaso Padoa Schioppa. Appuntamenti strutturati ben vivi nella memoria dei partecipanti.
    Poi c’è Giorgio Napolitano. E c’è chi si spinge a dire che dopo averlo invano invocato come ministro politico del governo tecnico, il presidente uscente gradirebbe che questa volta fosse Amato a salire al Quirinale. Il rapporto è stretto dagli anni 70, epoca di contatti non semplici tra Pci e Psi. E quanto a collocazione a sinistra Amato la sta curando: grande feeling con la Cgil di Epifani prima e oggi di Susanna Camusso con la quale ha presentato il documento programmatico.

    “Non partecipo, non ci ho pensato, non ci penso e nemmeno mi interessa. Ma c’è chi può avere interesse a far circolare i nostri nomi”.
        Arnaldo Forlani 1992


    Della “credibilità internazionale” ricostruita dopo gli strappi berlusconiani Mario Monti ha fatto il benchmark (non felice o non sufficiente) per la sua campagna elettorale oltre che per l’immagine costruita o potenziata durante la stagione al governo. E anche se la stima di Angela Merkel maldestramente maneggiata nel furore e nella stanchezza della campagna elettorale gli si è rivoltata contro come un boomerang, dal punto di vista del curriculum eventualmente a disposizione per il Quirinale, può comunque tornare utile. Lo standing europeo e americano, il lunghissimo elenco di adesioni a think tank e fondazioni che compone le note biografiche del professore bocconiano, già commissario europeo è già parte integrante del cursus honorum per un’eventuale risalita dall’infranto piano A, palazzo Chigi, al piano B il Quirinale. Certo monitorata nei cedimenti della campagna elettorale, con l’immagine fresca del cagnolino Empatia in braccio, la scelta di Monti sgradita nelle modalità anche a Napolitano, lo mette all’ultimo posto fra gli aspiranti presidenti della Repubblica. Ma tutto è aperto per definizione e se le reti contano, se garantire la stabilità conta, Monti può far valere le sue. Se c’è un luogo dove queste sono state ciclicamente e ordinatamente visibili questo è Cernobbio. I seminari dello studio Ambrosetti frequentati dal gotha europeo e italiano della finanza e anche da figure come Shimon Peres e negli anni, da Arafat, poi da Abu Mazen.
    Sulla questione mediorientale Monti si lascia alle spalle l’unico strappo alla sua cifra di negoziatore, l’unico di cui si parli alla Farnesina con strascico di veleno sulla sconfessione della linea del ministro Terzi: le critiche israeliane per il sì italiano alla risoluzione Onu che a novembre scorso ha dato alla Palestina il rango di Stato osservatore come il Vaticano e la Svizzera. C’è chi ha letto nell’episodio la prevalenza di una linea in questo caso convergente del sottosegretario Marta Dassù e della diplomazia Sant’Egidio del ministro Andrea Riccardi poi coinvolto nel progetto politico.
    Monti ha partecipato con ruoli diversi, tanti quanti quelli ricoperti ben prima dell’esperienza politica: è stato advisor di Goldman Sachs e di Moody’s per esempio.
    Monti è quello che inserisce nelle note biografiche, senza velature per le connotazioni, le appartenenze all’esclusivissimo Bilderberg Group e alla Trilateral Commission, il think tank fondato da Rockefeller. Vanta ottimi rapporti con il presidente del Fondo Monetario Christine Lagarde altra frequentatrice di Cernobbio, con i capi di governo europei, con la macchina di Bruxelles. Tutti pronti a riconoscerne la capacità di negoziatore.  La questione Draghi è più complessa. Nella letteratura sui super Mario, nella versione degli antipatizzanti che indicavano in Draghi l’artefice del calo dello spread Monti ha trovato motivi di composta irritazione. Ma soprattutto ha monitorato con meticolosità le critiche alla sua politica economica, dagli incentivi alle imprese agli eccessivi compromessi con le corporazioni, degli economisti ed editorialisti del Corriere Alesina e Giavazzi con l’idea che potessero essere condivise dal presidente della Bce. Di certo Monti è deciso a far valere dal punto di vista delle credenziali anche l’ultimo scorcio della sua stagione governativa. Si è visto ieri nel confronto con il governatore di Bankitalia Ignazio Visco a Palazzo Chigi, consiglio di guerra con il fedelissimo ministro degli Affari europei Enzo Moavero Milanesi.

    “Io capo dello stato? Diciamo che la stagione del carnevale è ancora lontana. E ho dei dubbi che la mia persona sia adatta”.
        Massimo D’Alema, 1997

    Un dispaccio dell’agenzia Tmnews del 21 febbraio scorso dedicava due lanci alla visita di Romano Prodi a Mosca, colloquio con il ministro degli Esteri Lavrov e festa per i vent’anni di Gazprom nonché “laurea honoris causa dell’Università russa Mgimo. Si tratta della trentacinquesima che il professore ha collezionato. Alla stampa italiana che gli sottolineava il numero davvero notevole” scrive l’agenzia “Prodi ha risposto scherzando: ormai posso fare di tutto dal medico in poi”. Per chi conosce bene il professore, ex presidente del consiglio e della Commissione europea quel genere di dichiarazioni ha un suo senso particolare. Perfino a prezzo di qualche imprudenza. Tale viene giudicata anche dal Quirinale, nella sua composizione attuale, l’apparizione di Prodi sul palco di piazza Duomo a Milano con Bersani e Ambrosoli e Vendola e Pisapia e Tabacci. Nella logica prodiana serviva a riconsolidare, il rapporto con l’intera coalizione di centrosinistra quella che potrebbe votarlo. E soprattutto a far dimenticare lo scarso impegno pro segretario alle primarie e gli incontri con Matteo Renzi. “Il Pd autosufficiente potrebbe votare Prodi, il Pd che deve fare accordi con Monti forse voterebbe Amato o Monti”, è il genere di pronostico che accompagna il risiko del Quirinale. Prodi naturalmente è ben attento ai numeri e guarda anche fuori, a metà fra il network e i voti parlamentari custodisce un buon rapporto con Giulio Tremonti mediato dall’amicizia condivisa con il banchiere Giovanni Bazoli e con Giovanni Gorno Tempini, amministratore delegato della Cassa depositi e prestiti, nomina apprezzata da entrambi. Più audace e tutta da scoprire la mossa di apertura preventiva ai grillini, con tanto di indiscrezioni giornalistiche su un incontro addirittura con il guru del leader Gianroberto Casaleggio. 
    L’offensiva prodiana sconta qualche eccesso, incoraggiato magari dal borsino dei nomi che dà, in questa fase, per favorito l’ex leader dell’Ulivo, l’unico peraltro che abbia esperienza di campagne elettorali dirette: uno per tutti l’apparizione qualche settimana fa di Angelo Rovati, consigliere fidato di Prodi, da sempre attaché di relazioni con imprenditori ed establishment ad un ricevimento elettorale per il candidato del centrosinistra Umberto Ambrosoli nella casa milanese del finanziere Francesco Micheli. Rovati ha azzardato lì un esperimento di fund raising per Ambrosoli mettendo all’asta un quadro, a detta di qualche cronaca maliziosa, di minor valore di ognuno di quelli appesi alle pareti di casa Micheli. L’episodio è di colore, ma la dice lunga sulle ambizioni del professore.
    Certo anche Prodi scommette sul curriculum internazionale. Lo ha sempre fatto anche per bilanciare le strategie di logoramento dispiegate negli anni contro di lui dagli alleati – avversari interni. Per marcare una specie di differenza di status. E basta rileggere il libro di Rodolfo Brancoli, suo portavoce, sulla caduta del secondo governo Prodi per verificarlo. Si dà conto di affinità con Angela Merkel, “Prodi la descrisse così metà intellettuale, metà cultura contadina” scrive Brancoli e aggiunge “ma è una descrizione che potrebbe attagliarsi perfettamente a Prodi”.
    La trasferta russa alla festa di Gazprom rinvia alla scelta che Prodi premier fece nel 2007 quella di firmare l’accordo con il gasdotto russo South Stream in continuità con le scelte del governo Berlusconi voltando le spalle al progetto concorrente Nabucco che vedeva consorziati Unione europea e Stati Uniti e guadagnando così la stima di Putin, molto meno quella americana, nonostante uscito da Palazzo Chigi avesse poi rifiutato una poltrona al vertice del colosso energetico russo. Prodi porta in dote i rapporti consolidati a Bruxelles magari al netto di qualche rancore. E’ il meno americano della “trojka” in competizione per il Colle. Se ne rammaricava qualche giorno fa un prodiano del Pd: “Il Fanfani di Obama è Monti, non è Prodi”. Non che abbia cattivi rapporti (erano ottimi quelli con l’amministrazione Clinton negli anni ‘90 dell’Ulivo mondiale), ma fra network internazionali è quello che raccoglie, nella sua biografia istituzionale e diplomatica, le opzioni meno ortodosse. Compresa quella di approfondire e coltivare soprattutto le relazioni con la Cina che peraltro aiutò ad entrare nella Wto. Sul peso della Cina per la corsa al Colle si rinvia al Foglio del 19 febbraio scorso. Qui basterà osservare che per i nemici in patria anche questo può essere argomento acidulo: “Tenere lezioni all’accademia del Partito comunista cinese non è il massimo”.
    Interpellato dal Foglio, un prodiano che non vuole essere citato compensa enfatizzando un episodio del 2005. “Prodi incontrò Draghi a Londra nella sede della Goldman Sachs e gli offrì il ministero dell’economia. Draghi accettò salvo diventare di lì a poco, dopo le dimissioni di Antonio Fazio, governatore della Banca d’Italia. Dopo le elezioni Prodi chiamò Tommaso Padoa-Schioppa”.  E’ quel genere di aneddotica che aiuta a testimoniare feeling o piccole generosità pregresse, il termometro attuale dice che i rapporti con il presidente della Bce sono buoni, ma “buoni come possono essere quelli fra primedonne” aggiunge una fonte del governo Prodi che fu.

    N.B. Non si pensi che l’ordine di esposizione celi un borsino o una gerarchia, si è seguito un criterio raccomandato spesso da Giuliano Amato per evitare collisioni fra personalità: l’alfabeto.