Ecco la nuova serie tv fatta per lo spettatore anarchico e senza metodo

Michele Boroni

Serie tv. Un nome che identifica chiaramente un formato di (grande) intrattenimento e che ne evidenzia i due elementi principali. Da una parte la serialità, ovvero una narrazione costituita da episodi con cadenza periodica (solitamente settimanale), dall’altra l’emissione da parte di un canale o network televisivo. Tutto chiaro. In queste settimane però un nuovo prodotto rischia di minare le certezze di un format ormai consolidato. Si tratta di “House of Cards”.

    Serie tv. Un nome che identifica chiaramente un formato di (grande) intrattenimento e che ne evidenzia i due elementi principali. Da una parte la serialità, ovvero una narrazione costituita da episodi con cadenza periodica (solitamente settimanale), dall’altra l’emissione da parte di un canale o network televisivo. Tutto chiaro. In queste settimane però un nuovo prodotto rischia di minare le certezze di un format ormai consolidato. Si tratta di “House of Cards”. La trama non è niente di originale (un political drama tratto da un libro e da una miniserie inglese) seppur realizzata egregiamente. In breve: un gigantesco Kevin Spacey interpreta Frank Underwood, un leader della maggioranza del Congresso che, con l’arrivo del nuovo presidente democratico, è a un passo dal diventare, finalmente, segretario di stato. Le cose però non vanno come previsto e così Frank scatena la sua furia crudele e manipolatoria verso tutta la Casa Bianca. La serie è prodotta e diretta – i primi due episodi – da David Fincher (regista di “Seven” e “The Social Network”) e sceneggiata dal giovane Beau Willimon (che aveva scritto “Le Idi di Marzo” di George Clooney). Ma non sono i contenuti o il cast a essere rivoluzionari. “House of Cards” infatti non è realizzata e mandata in onda da un network televisivo, bensì da Netflix, la società leader del noleggio home video che grazie a una politica molto aggressiva – prima con il noleggio dvd a domicilio, poi dal 2008 con il servizio di streaming on demand su abbonamento – è riuscita a far fallire brand globali come BlockBuster.

    Forte dei suoi trenta milioni di utenti in America, nel Regno Unito e in alcuni paesi del nord Europa (in Italia sta per arrivare, abbiate pazienza), Netflix è riuscita a produrre due stagioni della serie sborsando cento milioni di dollari. A differenza però delle canoniche serie tv, Netflix ha rilasciato (termine orrendo tradotto dall’inglese release, utilizzato abitualmente per l’uscita di software, quindi corretto in questo caso) tutti e tredici gli episodi sulla propria piattaforma il primo di febbraio, consentendo allo spettatore la scelta di quando e come vederseli, incluso il cosiddetto “binge-viewing”, la scorpacciata di puntate una dietro l’altra, magari nello stesso weekend.

    Come di fronte a tutte le rivoluzioni, le opinioni divergono e il vero dibattito verte tutto sulla modalità di fruizione. Steve Rosenbaum sull’Huffington Post critica la scelta e scrive: “Per favore Netflix, rallenta. Questa serie merita di essere gustata, non divorata”. Parere nettamente opposto per Josef Adalian di Vulture che scrive: “Credo che vedere ‘House of Cards’ tutto in una volta sia stata la cosa migliore da fare. Quando ti spari gli episodi uno dietro l’altro, passi sopra a tanti difetti e perdoni le puntate più deboli”. Ma è il New York Times che centra l’argomento, ovvero il lato “social” delle serie tv e titola: “L’uscita dei 13 episodi cambia la definizione di ‘attenzione agli spoiler’”. Il critico tv del Nyt si chiede come possono fare i fan a parlare di questo programma se (come probabile) non hanno visto lo stesso numero di puntate, cosa invece naturale quando si segue una serie che viene proposta un episodio a settimana a un orario fisso.

    In effetti l’attesa settimanale tra un episodio e l’altro delle serie canoniche e le relative discussioni e congetture sullo sviluppo della trama danno la percezione ai telespettatori di far parte della struttura narrativa. Ed è anche questa la grande forza del successo (specialmente in rete) delle serie tv, meccanismo che una serie senza regole di visione come “House of Cards” non riesce a scatenare. E poi rimane il problema principale. Se “House of Cards” non è propriamente una “serie tv”, allora, come vogliamo chiamarla?