
Una smacchiatina a Bersani
Ma come parla il segretario? Il bersanese spiegato e criticato dal consigliere di Bersani
La lingua di Bersani è peculiare perché non sceglie di mescolare l’alto e il basso – ossia di percorrere la strada del mistilinguismo di tutta una tradizione letteraria italiana che va da Dante Alighieri a Carlo Emilio Gadda – ma preferisce usare solo il sermo humilis, quello dei toni gergali e quotidiani, dei dialettismi orgogliosamente esibiti, delle parole tronche e strascicate, della sentenziosità proverbiale che ricorda da vicino il populismo linguistico degli esordi di Umberto Bossi e di Antonio Di Pietro. Un gruppo di metafore è tratto dal mondo contadino, quello che popolava le aie delle cascine della bassa padana fino alla metà del secolo scorso.
di Miguel Gotor
Lo storico Miguel Gotor è uno dei consiglieri più ascoltati dal segretario del Pd e negli ultimi mesi, tra primarie di centrosinistra e campagna elettorale, è diventato uno dei volti chiave del Pd di Pier Luigi Bersani. Oggi Gotor è candidato alla Camera con il centrosinistra (in Umbria) ma prima di avvicinarsi al Pd Gotor ha scritto a lungo per Repubblica e per il Sole 24 Ore. Proprio sul Sole 24 Ore, il 12 settembre 2009, pubblicò un articolo sul “bersanese”, il linguaggio di Bersani. Un articolo che tre anni e mezzo dopo è ancora di discreta attualità, e ci aiuta a capire qualcosa di più sul linguaggio del segretario del Pd, e le sue smacchiature di giaguaro.
Pier Paolo Pasolini già nel 1964 si era soffermato in Nuove questioni linguistiche su un discorso di Aldo Moro pronunciato in occasione dell’inaugurazione dell’autostrada del Sole. Allo sguardo vigile dello scrittore friulano la lingua di Moro era apparsa diversa dal solito, impegnata ad acconciarsi all’avanzata tumultuosa di una nuova Italia tecnologica e industriale. All’improvviso il suo linguaggio aveva abbandonato il consueto “lessico umanista” e il “cursus latineggiante” in favore di un repertorio tecnocratico e consumistico (“l’archetipo degli slogan”) che aveva l’obiettivo di adeguarsi al processo di modernizzazione in atto, un processo che avrebbe modificato “alla radice il linguaggio politico ufficiale” e provocato un duplice e progressivo scollamento: quello tra “Progresso” e “Sviluppo”, tra “Paese reale” e “Palazzo”.
Il saggio di Pasolini ci è ritornato alla mente quest’estate, allorquando si è avuto modo di osservare in alcune occasioni il linguaggio di Pier Luigi Bersani. E’ difficile non rimanere sorpresi dalla singolarità della sua lingua, dalla capacità di creare immagini e metafore evocative, con un’alta carica mitopoietica, ma dentro un registro volutamente disadorno, a tratti persino sciatto. Gli osservatori più attenti se ne sono accorti e non hanno esitato a parlare di “bersanese” (Luca Telese, Panorama). L’interessato gigioneggia: “Lo so… ‘il bersanese’ esiste. Ho un accento dialettale, mi piacciono le frasi rotonde e chiare. Se mi eleggeranno, io parlerò così”.
La lingua di Bersani è peculiare perché non sceglie di mescolare l’alto e il basso – ossia di percorrere la strada del mistilinguismo di tutta una tradizione letteraria italiana che va da Dante Alighieri a Carlo Emilio Gadda – ma preferisce usare solo il sermo humilis, quello dei toni gergali e quotidiani, dei dialettismi orgogliosamente esibiti, delle parole tronche e strascicate, della sentenziosità proverbiale che ricorda da vicino il populismo linguistico degli esordi di Umberto Bossi e di Antonio Di Pietro.
Un gruppo di metafore è tratto dal mondo contadino, quello che popolava le aie delle cascine della bassa padana fino alla metà del secolo scorso: “la raccolta non la fai quando semini”, “il consenso è come una mela sul ramo: balla, balla ma cade solo se c’è il cestino”, “io non ho mandato per pane i farmacisti”, “Berlusconi ha perso le piume”, “i giovani tirano la carretta”, per far vincere il merito “devi levare un po’ di cuccia, se no la tieni sempre lì che succhia” (si immagina un animale da cortile della sua infanzia), sino a un indimenticabile quanto enigmatico Giulio Tremonti “tutto riso e fagioli”.
Un secondo insieme di immagini rimanda al laborioso mondo artigianale delle officine e delle botteghe con i loro antichi mestieri: un partito si costruisce “a forza di cacciavite”, “la lama si affila sul sasso”, “facciam l’amalgama”, “bisogna trovare la quadra”, non bisogna dimenticare che “mi è arrivato addosso un condominio quando feci lo spezzatino dell’Enel”, ma che qualcuno deve pur prendersi “il compito di far girare la ruota”. E ancora: “un ruolo di denuncia può rimpannucciarti”, “giovane e vecchio non valgono un bottone” e, tra gli applausi crescenti della folla, “’sta volta le lenzuolate le facciam dal basso”.
Il terzo gruppo di espressioni figurate riguarda il mondo delle osterie e quello delle bocciofile: “Ci hanno levato la briscola”, “siamo rimasti col due in mano”, “non possiamo portare vino annacquato”. Il partito che si candida a dirigere è sempre “’sta roba qui”, ma per capire cosa egli abbia davvero in mente bisogna sapere distinguere una bocciofila da un bocciodromo: e sì, perché “in un bocciodromo la boccia si può tirare ‘a punta’, ‘a bocciata’ o in altro modo, ma se uno va in una bocciofila non può tirare come gli pare” e perciò deve fare squadra. Ma attenzione perché “se vogliamo cambiare ‘sta società”, quando “le bocce si sono fermate” “dobbiamo decidere la barra”, senza perdere di vista che “la storia non si ripete mai, ma ama le rime”.
Ma come parla Bersani? E soprattutto, perché parla così? Naturalmente, l’interessato ha la risposta pronta e quindi ricorda: “Io negli anni Settanta parlavo in un modo che oggi mi fa quasi schifo: fra il politichese e l’ostrogoto. Ho fatto uno sforzo, adesso credo alla nobiltà della metafora, che consente a tutti di capire”. Insomma, saremmo davanti alla studiata scelta di un registro comunicativo originale, che avrebbe lo scopo di raggiungere il maggiore numero di persone possibili, offrendo loro la possibilità di identificarsi pienamente con l’interlocutore, a prezzo di rinunciare a qualunque intento pedagogico-formativo. Se fosse così, una simile opzione avrebbe un indubbio vantaggio, ossia quello di produrre nell’ascoltatore un curioso effetto di regressione che predilige la nostalgia per il buon tempo antico, un sentimento del tutto coerente con lo slogan della campagna di “Bersani 09. Un senso a questa storia”, con il suo inevitabile corollario di ossessioni arboree per cui le radici sarebbero il nostro orizzonte. In effetti, il lessico di Bersani è la spia di un programma politico che punta a un target preciso, ma al tempo stesso liquido ed emotivo, e all’idealizzazione di un’età primigenia, da lui evocata in ogni comizio, quella in cui i cattolici e i socialisti non sedevano ancora in Parlamento, ma erano radicati nella società.
Tuttavia, proprio qui nascono le perplessità. Infatti, cosa dice Bersani è chiaro, come lo dice no: il contenuto è sacrificato sull’altare della concretezza mediatica e si assiste al trionfo, avrebbe scritto Pasolini, del fine comunicativo su quello espressivo, “come in ogni lingua di alta civilizzazione e di pochi livelli culturali”, quale è ormai l’italiano. Il problema vero è che oggi gli italiani non parlano più in questo modo e i luoghi e i mestieri richiamati da Bersani sono quasi materialmente scomparsi insieme con i microcosmi sociali di riferimento: la bocciofila, la cascina, l’osteria, la bottega sartoriale, l’officina. E dunque ne scaturisce un risultato paradossale perché la realtà non corrisponde al linguaggio e il linguaggio quindi non riesce a descriverla compiutamente, ad afferrarla in un progetto. Il candidato alla segreteria del Pd sembra rivolgersi a una platea di cattolici e socialisti dell’Ottocento, ma il pubblico che lo ascolta si sente come estraniato, quasi fosse in un museo davanti a un quadro di Pellizza da Volpedo.
A ben guardare, la lingua è sempre il sintomo di uno stile che a sua volta rivela una nevrosi: in Bersani il timore di essere considerato passatista, l’uomo di apparato a cui gli “pittano il grigiume indosso” come direbbe lui. Eppure, egli proprio del passato sta facendo un uso smaliziato e consapevole con l’ambizione di chiamare a raccolta un elettore sommerso, quello delle primarie, che deciderà il suo futuro politico. Ciò può forse bastare a Bersani per motivare un pezzo di partito e per rafforzare il recinto del proprio elettorato tradizionale, ma certo non gli sarà sufficiente se vorrà davvero vincere la sua partita, ossia raggiungere pezzi di società (si pensi soltanto alla piccola e media impresa) che oggi non votano il Pd. Per riuscirvi, però, “’sta roba qui” non dovrà essere solo di sinistra, ma soprattutto riformista e non guardare al passato e basta, bensì anche al presente e al futuro degli italiani. Bisogna trovare ancora le parole per dirlo, ma come dicevano gli antichi: rem tene, verba sequentur.
di Miguel Gotor


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