Da Scalfari a de Bortoli. La solitudine di Monti nell'establishment giornalistico

Alessandra Sardoni

Magari non arrivano al paragone abrasivo, l’evocazione di Ghino di Tacco e dunque di Craxi come da risentito editorialone scalfariano di domenica scorsa (“Perché Monti mi ha deluso”), al Monti gerundio di Francesco Merlo, allo sgomento di Curzio Maltese per la scoperta tardiva che “oddio Monti non è di sinistra”, ma non c’è dubbio che anche al di fuori di Repubblica, tra Via Solferino e il quotidiano di Confindustria, gli editorialisti di punta siano poco amichevoli nei confronti dell’avventura politica del presidente del Consiglio dimissionario e non più tecnico.

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    Magari non arrivano al paragone abrasivo, l’evocazione di Ghino di Tacco e dunque di Craxi come da risentito editorialone scalfariano di domenica scorsa (“Perché Monti mi ha deluso”), al Monti gerundio di Francesco Merlo, allo sgomento di Curzio Maltese per la scoperta tardiva che “oddio Monti non è di sinistra”, ma non c’è dubbio che anche al di fuori di Repubblica, tra Via Solferino e il quotidiano di Confindustria, gli editorialisti di punta siano poco amichevoli nei confronti dell’avventura politica del presidente del Consiglio dimissionario e non più tecnico. Leggere per credere la chiusa dell’intervista di Ferruccio de Bortoli a Corrado Passera: al ministro che ha mollato Monti e un possibile seggio in Parlamento, ma che annunciava, ieri, engagement politico per ora su Twitter, il direttore del Corriere raccomandava  di non usare  “wow o emoticon” – largamente utilizzati dal premier che del Corriere è stato editorialista –  perché “è come andare in bermuda all’inaugurazione di un anno accademico”. La questione merita approfondimento perché la critica aperta al Monti mutante contiene il paradosso più interessante per gli osservatori della metamorfosi: ovvero che il professore bocconiano non è il candidato dell’establishment, non quello delle banche, non quello degli imprenditori e neppure quello della Bocconi. E che se ha scelto la tv, la rete e la malia della “democrazia depoliticizzata” ed elitaria (vedi Marco Valerio Lo Prete sul Foglio di sabato) non può contare su quegli editorialisti che fino a qualche mese fa lo avevano sostenuto come salvatore della patria. Non ci fossero La Stampa e il Messaggero per ragioni di alleanze più che di adesione politico-culturale, per Monti sarebbe davvero dura. Sul Corriere ha aperto le ostilità Ernesto Galli della Loggia sollevando obiezioni tecnico-politiche sulla candidatura di un senatore a vita prima ancora della conferenza stampa di fine anno, seguito dal duo bocconiano Alesina e Giavazzi critico su eccessivo ruolo dello stato, spazio alle lobby, incapacità di tagliare davvero la spesa. E ancora diffidenza di Massimo Franco e Pigi Battista.

    Anche il Sole 24 Ore non ha profuso entusiasmo, scettico Stefano Folli sulla possibilità di un Monti De Gaulle, scettici i commentatori di cose economiche. Scettico del resto il presidente di Confindustria Squinzi, mai tenero con il governo tecnico a cominciare dalla riforma del lavoro. Nessuno insomma ha brindato neppure chi era sembrato auspicare il riassetto di sistema, sezione italiana del Ppe contro sezione italiana del Pse. Il punto è perché tanta ostilità per un progetto che pure si ammette ispirato e forse protetto, da lontano, da “costituency” internazionali. Gli insider la spiegano con il profilo dell’operazione Monti: “Attaccando il Pd e la Cgil tenta di spezzare il legame storico fra la sinistra e l’establishment, quello classico dei Prodi, D’Alema, Amato… La diplomazia parallela della tradizione. Monti in questo senso spaventa”. Un tema esplicito nella linea di Repubblica. Tagliente rispetto all’agenda economica Tito Boeri bocconiano nonché presidente della Fondazione De Benedetti. Durissimo Scalfari che del resto aveva difeso Monti contro Zagrebelsky, vagheggiato un ircocervo del tipo Monti bis con governo Pd, salvo ritrovarsi Monti contro Bersani e improvvisamente autonomista nei confronti di Napolitano. Per di più subendo una clamorosa smentita live alla conversazione-intervista con Monti che scommetteva sul no infine alla mutazione politica. Mutazione che si rivela diversa da quella prevista, meno ovvia: la lista pesca finora nei corpi intermedi, spezzoni di Cisl, associazionismo bianco, per uno che crede poco nei partiti e molto agli ottimati è un paradosso nel paradosso.

    C’è anche una lettura relazionale che attribuisce al professore poche amicizie vere: oltre a quella evidente con Montezemolo, Tronchetti Provera e, in modalità più pop, Diego Della Valle. Distaccato se non ostile il mondo delle banche: “Enrico Cucchiani e Federico Ghizzoni (gli ad di Intesa e Unicredit) non stanno alla politica come una volta Passera e Profumo” osserva un altro insider.  C’è anche una lettura psicologica, biografica del rapporto fra Monti e quei mondi, qualcuno ricorda il giudizio malizioso di Giavazzi su Monti riportato da Marco Ferrante sul Foglio di qualche anno fa: “Inizialmente era un personaggio molto domestico”. Per dire di ruggini e caratteri. 
    “La verità è che l’establishment non era preparato a un Monti con ambizioni da leader, è sempre stato un cooptato”, dicono voci di dentro dei due quotidiani. E in effetti lo stesso premier a Otto e mezzo di sé diceva “non mi sono mai candidato a niente”.

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