Chi difenderà Israele? Dietro le quinte nel Pentagono di Tel Aviv

Giulio Meotti

Sul tavolo del prossimo “Mar Bitachon”, il ministro della Difesa che guida il Kirya, il Pentagono di Tel Aviv, ci saranno due grandi dossier da gestire: l’uranio di Qom, il bunker atomico in cui l’Iran fabbrica la bomba nucleare, e lo spettro di una nuova offensiva violenta palestinese. Due giorni fa l’ex premier Ehud Olmert ha scandito: “Siamo sull’orlo di una Terza intifada”.

    Sul tavolo del prossimo “Mar Bitachon”, il ministro della Difesa che guida il Kirya, il Pentagono di Tel Aviv, ci saranno due grandi dossier da gestire: l’uranio di Qom, il bunker atomico in cui l’Iran fabbrica la bomba nucleare, e lo spettro di una nuova offensiva violenta palestinese. Due giorni fa l’ex premier Ehud Olmert ha scandito: “Siamo sull’orlo di una Terza intifada”. Negli ultimi quattro anni è stato Ehud Barak a guidare l’apparato di sicurezza israeliano, con “Piombo fuso” a Gaza, uno strike segreto contro l’atomica siriana, una serie di operazioni clandestine contro le centrali iraniane, la preparazione di uno strike preventivo contro Teheran e, infine, meno di un mese fa, la “Colonna di fumo” contro Hamas. Chi erediterà le sue redini al ministero della Difesa israeliano? E’ la questione centrale oggi nello stato ebraico che va alle elezioni il 22 gennaio.
    La prima ipotesi è il ritorno dello stesso Barak, il “cekista” dimissionario ma giudicato da molti insostituibile, per il quale il premier Benjamin Netanyahu prova una vera ammirazione (il padre, lo storico dell’Inquisizione Ben Zion, chiese al giovane Ehud di pronunciare l’orazione funebre per Yoni, il fratello del premier ucciso nel celebre raid di Entebbe). Ci sarebbe proprio il possibile ritorno di Barak dietro all’attacco durissimo portato ieri a Netanyahu e Barak da parte di Yuval Diskin, l’ex capo del servizio segreto interno. Diskin ha detto che i due sono “deboli”, “ossessionati” dall’Iran e che pongono il proprio interesse sopra a quello dello stato. Ambienti vicini al primo ministro hanno risposto che Diskin è soltanto “frustrato” per non avere ottenuto la guida del Mossad. Barak sarà la scelta più logica se Netanyahu decidesse per un esterno, un “tecnico”.

    Il commento più eloquente su Barak viene da Eitan Haber, opinionista di punta del quotidiano Yedioth Ahronoth: “Rabin aveva grande rispetto per lui, Shamir lo adorava, Bibi e la sua famiglia lo ammiravano. Nella Sayeret Matkal, Barak era un comandante superiore. Lui sa tutto di tutto: del cancro al pancreas più degli oncologi, di Ciaikovskij più di un maestro d’orchestra, della storia ebraica più di un professore. Solo una mente brillante come la sua avrebbe potuto mettere a punto il piano per assassinare Saddam Hussein. Forse alla politica non mancherà Barak, ma alla sicurezza sì”. Per questo il soldato più decorato della storia d’Israele potrebbe essere richiamato in servizio da Bibi, come molti rumors confermano in questi giorni. E nel caso in cui il premier scegliesse nuovamente l’ex comandante della sua unità sarebbe il segnale di un accordo per andare avanti con lo strike contro il nucleare dell’Iran. In alternativa, si parla di un altro militare esterno (Gabi Ashkenazi, pur molto inviso a Barak).
    David Horowitz, direttore del giornale Times of Israel, ieri ha scritto che un’ipotesi concreta vedrebbe l’attuale ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, alla guida della Difesa. Ma i guai giudiziari del politico di origini russe potrebbero essere un ostacolo, almeno nel breve termine. Inoltre, nostre fonti israeliane ci confermano che Lieberman sarebbe interessato a mantenere il controllo della diplomazia.
    Se Netanyahu dovesse formare una coalizione con i centristi di Tzipi Livni a scapito della destra di Naftali Bennett, l’astro di questa campagna elettorale, la scelta potrebbe cadere sull’ex ministro della Difesa, Amir Peretz, che fu molto contestato quando guidò Israele nella guerra a Hezbollah sei anni fa. Dalla sua l’ex immigrato marocchino, noto per un paio di baffoni “alla Stalin”, vanta la creazione di “Iron Dome”, la muraglia antimissilistica esaltata durante l’ultima guerra contro Hamas a Gaza.

    La testa di cuoio che munge le vacche
    Se Netanyahu formasse un governo con i partiti ortodossi, alla Difesa finirà un uomo del Likud. In questo caso, il più probabile, stando a quanto scrive anche Yisrael Hayom, primo giornale nel paese e vicinissimo al primo ministro, è Moshe Yaalon. A lui Netanyahu aveva già promesso tre anni fa il ministero della Difesa, poi finito a Ehud Barak.
    Paracadutista, ex capo di stato maggiore, il generale Yaalon è un eroe di guerra che ha partecipato alla liberazione del Canale di Suez nella guerra del Kippur del 1973 e poi, come membro di una unità scelta, tra il 1979 e il 1982, all’operazione “Pace in Galilea” (invasione del Libano). Il generale ha una biografia “di sinistra”, viene dal kibbutz Grofit nel Negev, dove munge le vacche, vive in una modesta casa con la moglie e i figli e si è formato con i rampolli del socialismo comunitario di David Ben-Gurion. Yaalon è stato inseguito da un mandato di cattura inglese per “crimini di guerra”, per il quale ha dovuto annullare una serie di viaggi a Londra: è il caso Salah Shehadeh, il capo militare di Hamas ucciso da Israele assieme a numerosi civili in una operazione mirata. Yaalon, oltre ad aver fermato i kamikaze palestinesi, ha diretto la Sayeret Matkal, l’unità d’élite dell’esercito, famosa per il motto “chi osa vince”, mutuato dalle Sas inglesi, alla quale vengono affidate le missioni più segrete e pericolose. E’ in questa veste che Yaalon ha diretto personalmente il raid che a Tunisi ha portato nel 1988 all’uccisione di Abu Jihad, il capo militare dell’Olp di Yasser Arafat.

    La missione, come ha ricostruito il giornale Yedioth Ahronoth di recente, fu compiuta da ventisei uomini guidati da Yaalon, che sbarcarono in segreto sulla spiaggia di Gammarth, a metà strada sulla costa fra Tunisi e Sidi Bou Said. Ventisei minuti dopo i commando di Yaalon riprendevano il mare alla volta di Israele. Abu Jihad restava a terra crivellato da cinquanta proiettili.
    Yaalon è apprezzato per due qualità, l’eroismo militare e l’umiltà. Quando l’allora ministro della Difesa, Benjamin Ben-Eliezer, lo scelse come capo di stato maggiore disse che Yaalon era stato “l’unico a non averlo chiesto”. Sotto il suo comando Israele ha attraverso momenti difficili: la guerra americana in Iraq, la morte di Arafat, gli omicidi mirati dell’Intifada e il ritiro da Gaza (Yaalon fu “dimesso” da Ariel Sharon per la sua opposizione al ritiro dei coloni). Sui negoziati con i palestinesi, il kibbutzim è un super falco. In una intervista al quotidiano Haaretz, Yaalon ha detto: “Fintanto che l’altra parte non riconoscerà il nostro diritto all’esistenza come stato del popolo ebraico non sono pronto a cedere un millimetro di terra”. Si dice che l’ex premier Yitzhak Rabin ammirasse molto Yaalon per il suo coraggio e la sua integrità.

    (Quinto di una serie di articoli. I primi quattro sono stati pubblicati il 19, il 22, il 28 dicembre e il 3 gennaio)

    • Giulio Meotti
    • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.