Tra Aleppo e Bengasi

Redazione

Aleppo, città raffinata ed eterna dell’haleeb, che in arabo è il latte, come quello che il profeta Abramo offrì riconoscente alla sua popolazione, o forse la città del colore bianco, dall’aramaico halaba, sempre per la storia del latte di Abramo, è ormai un paesaggio devastato di macerie. Nell’estate del 2001 in Siria c’erano mille morti al mese, ora sono cinquemila. Le Nazioni Unite hanno rivisto verso l’alto la stima totale degli ammazzati fatta dai ribelli in questi 22 mesi di rivoluzione-guerra civile: non sono 45 mila, sono 60 mila.

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    Aleppo, città raffinata ed eterna dell’haleeb, che in arabo è il latte, come quello che il profeta Abramo offrì riconoscente alla sua popolazione, o forse la città del colore bianco, dall’aramaico halaba, sempre per la storia del latte di Abramo, è ormai un paesaggio devastato di macerie. Nell’estate del 2001 in Siria c’erano mille morti al mese, ora sono cinquemila. Le Nazioni Unite hanno rivisto verso l’alto la stima totale degli ammazzati fatta dai ribelli in questi 22 mesi di rivoluzione-guerra civile (eppure avevano tutto l’interesse a gonfiarla): non sono 45 mila, sono 60 mila. Vuol dire che nella guerra tra siriani sono morti più arabi che in tutti i conflitti tra stati arabi e Israele dal 1948 a oggi messi assieme. Come sempre succede si cerca all’esterno un responsabile: perché l’occidente/l’America/l’Europa/la Nato non intervengono e non intraprendono contro il presidente Bashar el Assad un’operazione militare come quella che in Libia ha sconfitto Gheddafi?

    Perché Bengasi è stata salvata dalle colonne di corazzati mandate da Tripoli a soffocare la rivolta nella culla e invece Aleppo e i suoi abitanti sono stati abbandonati a sei mesi di guerriglia urbana brutale (che peraltro non ha ancora modificato lo stallo militare: il 40 per cento della mappa cittadina resta in mano al governo, ma Aleppo brucia e si sbriciola giorno dopo giorno, come una nuova Stalingrado)?
    Gli analisti sono spaccati su due posizioni. C’è chi definisce l’inerzia sulla crisi siriana il peggior errore del presidente Obama (qui partono i battimani dei philosophes che amano il riverbero dell’intervento bellico a scopo umanitario sulla fronte, sui capelli, sulla camicia). C’è invece chi fa il conto di tutti i fattori possibili in caso di intervento militare dell’occidente dentro la Siria. C’è la possibile rappresaglia: Hezbollah può scatenare una guerra dal Libano anche contro Israele e l’Iran può aggiungersi. C’è l’ostilità politica di Russia e Cina. C’è il rischio – anzi, la certezza – che in mezzo ai ribelli in lotta contro il governo di Assad ci siano anche estremisti legati ad al Qaida, e allora perché aiutarli?

    La dottrina di fatto sulla Siria per ora sembra questa, e spiega la differenza con quanto è successo in Libia: si interviene quando si può e quando lo scopo dell’intervento è conforme agli obiettivi dell’occidente, non sotto la spinta di un impulso astratto verso la giustizia o perché si sente la responsabilità vincolante sempre e comunque di proteggere i civili. In Siria non si può – perché c’è il rischio di scatenare un conflitto internazionale e di aggravare la situazione – ma è stata messa comunque una “linea rossa”: se nella guerra civile il governo usa contro i suoi avversari le sue armi di distruzione di massa (in questo caso chimiche), Washington ha promesso di intervenire, perché il rischio di un allargamento della guerra sarebbe comunque un’ipotesi meno spaventosa delle stragi di civili.
    Assad è riuscito ad arrestare l’impeto di una rivoluzione coraggiosa e a trasformarlo in uno stallo lento e violento. Questa strategia gli ha allungato la vita, ma non durerà per sempre. La guerra civile si avvicina a Damasco e, se il presidente non cederà, alla capitale toccherà la stessa sorte di Aleppo.

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