La ninfa mistica

Alessandra Iadicicco

Quando, nell’autunno del 1943, partì definitivamente per il campo di smistamento nazista di Westerbork da cui sarebbe stata trasferita ad Auschwitz dove fu uccisa il 30 novembre dello stesso anno, Etty Hillesum portò con sé una copia della Bibbia e un dizionario di russo. La ragazza, 29enne, aveva lasciato ad Amsterdam, nella casa del contabile vedovo Hendrick Wegerif, il caro “Han”, un uomo di 62 anni con il quale conviveva “more uxorio” dal ’37, tutti gli altri libri che l’avevano accompagnata negli anni dell’attesa della fine: le poesie e le lettere di Rilke, i romanzi di Dostoevskji, i racconti del “nervoso, inquieto Gogol”, le “Confessioni” dell’“austero, ardente Agostino”.

    Quando, nell’autunno del 1943, partì definitivamente per il campo di smistamento nazista di Westerbork da cui sarebbe stata trasferita ad Auschwitz dove fu uccisa il 30 novembre dello stesso anno, Etty Hillesum portò con sé una copia della Bibbia e un dizionario di russo. La ragazza, 29enne, aveva lasciato ad Amsterdam, nella casa del contabile vedovo Hendrick Wegerif, il caro “Han”, un uomo di 62 anni con il quale conviveva “more uxorio” dal ’37, tutti gli altri libri che l’avevano accompagnata negli anni dell’attesa della fine: le poesie e le lettere di Rilke, i romanzi di Dostoevskji, i racconti del “nervoso, inquieto Gogol”, le “Confessioni” dell’“austero, ardente Agostino”. Aveva consegnato a un’amica, con la preghiera di pubblicarli, gli undici quaderni che nel corso dei tre anni precedenti la deportazione aveva riempito di appunti e pensieri, riflessioni e preghiere, “delle scorie dei miei eccitati stati d’animo” e delle storie vissute pericolosamente nella stagione della sua conversione spirituale, della sua nascita poetica e della sua grande avventura sentimentale. L’amica, nel Dopoguerra, rimise l’enorme zibaldone nelle mani di uno degli ex amanti di Etty, Klaas Smelik e fu il figlio di costui a convincere l’editore olandese J. G. Gaarlandt a pubblicarne una selezione alla fine degli anni Settanta. Quando, il 1° ottobre 1981, l’antologia fu presentata in conferenza stampa al Concertgebouw di Amsterdam, riscosse un successo immediato. Fu ristampata in 26 edizioni, tradotta in 28 lingue, pubblicata in Italia per la prima volta nel 1985. Ma non era, appunto, che un’antologia. Oltre metà del “Diario” era rimasto inedito. L’edizione integrale curata da Klaas A. D. Smelik, tradotta da Chiara Passanti e Tina Montone (con la collaborazione di Ada Vigliani per le parti in tedesco) che è appena uscita da Adelphi (922 pagine, 35 euro) vale oggi a prendere bene le misure – il che non significa ridimensionare – di quello che da un trentennio è considerato uno straordinario documento di forza morale, un’esemplare testimonianza di fede, il capolavoro poetico della giovane martire e mistica che, nell’ora in cui più acuta si faceva la consapevolezza dell’imminente annientamento, tanto più fervidamente seppe esprimere il proprio amore per la vita.

    “Amor vitae – vita amoris”. Una storia d’amore: questo racconta il “Diario” di Etty Hillesum. La vita di un amore. L’avventura del cuore da cui prese slancio il volo interiore che condusse l’innamorata, l’appassionata ragazza ebrea fino a Dio.
    “Il mondo rotola melodiosamente dalla mano di Dio”, scriveva Etty in uno dei primi appunti annotati nel quaderno a fogli grandi e a sottili righine blu che aveva inaugurato di recente, alla fine dell’inverno del ’41. Era stata però una mano ben più tangibile di quella divina, più carezzevole, prensile, scabrosamente ardita e umana a indicarle l’armonia che presto avrebbe imparato a sentire dentro di sé e a scorgere tra le assurde dissonanze del proprio tempo. Era stato il personaggio incredibile di uno psicochirologo, un chiroscopo – figura magica e un po’ folle di uno psicologo per metà medico junghiano, per metà veggente e chiromante – a prendere la mano di Etty tra le sue per leggere “in quel mio secondo volto”, nella cartografia delle linee che portava incise sui palmi, la sua “costipazione spirituale” e la direzione che avrebbe dovuto tenere per compiere il suo destino.

    “Mi ha presa per mano e mi ha detto: ecco, devi vivere così”, racconta Etty all’indomani del suo incontro con Julius Spier – sempre “S.” nei diari –: il dottore ebreo tedesco allievo di Carl Gustav Jung che, emigrando in Olanda nel 1938, aveva trasferito ad Amsterdam da Berlino la singolare attività di terapeuta alla quale, dopo aver fatto il cantante lirico (frenato nelle sue ambizioni di carriera da una crescente sordità), l’editore, il talent scout di giovani artisti, il socio di una ditta di commercio, si dedicava esclusivamente dal 1927 e che lo aveva reso celebre in Europa. Scriveva di lui la Frankfurter Zeitung nel 1941: “Il suo genio diagnostico ha un che di demoniaco. Il suo volto ha un’impronta faunesca. L’uomo conosce il grande Pan. La sua scienza richiede la magia della personalità, e non c’è magia senza il mago”. Dalla personalità di un simile guru Etty – che si era recata da lui per caso e per gioco, per un esperimento di prova, su invito di un vicino di casa e conoscente comune – fu immediatamente soggiogata. “Sotterrata, schiacciata”, come ammise infantilmente incantata. “Tutto questo sei tu, mi ha detto, con il tono di chi mette un biscottino in mano a un bimbetto”. E lei, sedotta dalla dolce lusinga e da metodi di cura a dir poco bizzarri, gli si affidò “con l’anima e tutto il resto”.
    Nel corso delle sedute sperimentali i due facevano “la lotta” (sic). S. intendeva valutare la forza fisica della sua paziente e lei, già la prima volta, prendendo l’esame molto sul serio, aveva buttato a terra quell’uomo grande e grosso finendo per rotolare sul tappeto con lui in preda alle contrastanti sensazioni di un’estrema attrazione erotica e di una forte repulsione. “Il mondo rotola melodiosamente dalla mano di Dio”, fu il commento registrato dopo quel concitato confronto con conseguente ruzzolata. Etty prese l’abitudine di recarsi da S. con una tutina da ginnastica sotto il vestito di lana. Lui tirava le tende, chiudeva a chiave la porta e, al momento di riaprirla osservando che “non si dovrebbero fare di queste cose con i vestiti addosso”, i due si ritrovavano in piedi l’uno di fronte all’altra in ambulatorio “imbarazzati come Adamo ed Eva dopo aver mangiato la mela”.

    Non che il morso fatale al frutto proibito – per restare fedeli alla scena peccaminosa e originale che Etty evoca dalla Genesi – non le avesse aperto gli occhi sull’umana nudità di quell’incantatore di venticinque anni più vecchio di lei. Stregata, certo, dal tipo affascinante “nonostante tutti quei denti finti”, colpita dalla “grazia tutta speciale di quel corpo pesante”, Etty vedeva bene e guardava impietosamente il “timido uomo sudato che alla fine si cacciava la camicia stropicciata nei calzoni”. Non gli risparmiava di riferirgli i commenti degli amici alle esibizioni canore del tenore mancato: “S. canta come un vecchio leone che ha messo la zampa su una lametta da barba”. Né, una volta divenuta sua paziente regolare, segretaria, amica intima confidente e amante – nonostante lui si dicesse fedele a tale Herta, la fidanzata che, emigrata a Londra, lo aspettava in Inghilterra per sposarlo, e nonostante lei vivesse ormai da anni con il suo buon vecchio Han – né, si diceva, considerando l’ambiguità della loro relazione si impediva di chiedersi “è sordido, è degenere?” salvo rispondersi subito “è tutto perfettamente in ordine”.

    Colpisce e conturba la spregiudicatezza di questa ragazza che da trent’anni gli agiografi e gli estimatori (tra essi il cardinal Martini, lettore appassionato dei diari della Hillesum) additano come una campionessa di fervore e devozione baciata dalla grazia della fede nella stagione più tetra della storia dell’umanità. Ma è Etty stessa – che portava chiaramente incisa nella mano una profonda “Menschenliebelinie”, una linea dell’amore per gli uomini – a sminuire l’importanza della propria sensualità, del “maledetto erotismo di cui è pieno zeppo lui come me”, della propria “dissolutezza estemporanea”, degli “interludi erotici” che “per colpa di un’educazione eccessivamente romanzesca si tende a sopravvalutare”. “Un uomo non è la cosa più importante per me” dice a se stessa svuotandosi gentilmente e silenziosamente sulle righine blu dei suoi quaderni: “Forse perché ho sempre avuto tanti uomini attorno?”. E’ lei stessa a tenere a bada, ricorrendo a metodi drastici e incresciosi, i sommovimenti che avvengono “a sud del mio diaframma”, anche a costo di ingerire dosi massicce di aspirina, pillole di chinino, cognac e acqua bollente per soffocare sul nascere la vita concepita nel suo ventre. “Ti sbarrerò l’ingresso in questa vita… Resterai nella condizione protetta di chi non è venuto al mondo, sii riconoscente, essere in divenire”, scrive immaginando di rivolgersi al proprio bimbo mai nato. E: “Non ho il rimorso di aver aggiunto un altro infelice a quelli che vivono su questa terra… non voglio prendermi la responsabilità di aumentare il numero di quegli sventurati”, nota redimendo se stessa dall’aborto di un feto di appena dieci giorni. Ed è ancora Etty che, turbata dall’eccitazione prodotta su di lei da “una nuova allieva, una lesbica, un tiretto mascolino, incurante, gli occhi blu acceso…”, arresa a un desiderio scandaloso (“avvicinerò il suo corpo al mio…”) ammette di essere “sessualmente ricettiva in tutte le direzioni”.

    E se fosse proprio la passionalità la chiave per sciogliere l’ambiguità di quell’“esserino brioso”, “personcina radiosa”, quale la descrivevano i suoi amici e conoscenti, della “sfrenata ragazza kirghisa”, “la forsennata in pigiama” come l’aveva definita il più fantasioso dei suoi amanti (“prima che ci abbandonassimo a un dialogo spinto sul tema del pigiama”) che fu Etty Hillesum? La stessa carnale sensualità che la giovane ebrea – “raffinata e abbastanza esperta dal punto di vista erotico”, diceva di sé – metteva nell’amare la spendeva, con lo stesso trasporto, nello scrivere e nel pregare, due discipline o forme di espressione di sé cui ugualmente l’aveva educata Julius Spier.
    Già laureata in Giurisprudenza, studentessa di Lettere, slavista, insegnante privata di russo – la lingua materna della madre –, Etty trascorreva molto del suo tempo traducendo: lo slavo ecclesiastico, Lermontov, Gogol, “L’idiota” di Dostoevskij. Studiando “con tutti i miei sensi quel grande miracolo che è la lingua”. Leggendo con una brama quasi possessiva di assimilazione e interiorizzazione il prediletto Rilke, il, Vangelo di Matteo, i Salmi, le lettere di Paolo ai Corinzi, testi dai quali le piaceva trascrivere frasi e interi brani, perché così “mi sento fisicamente più vicina a quelle parole: è come se le accarezzassi con la penna”. Perdendosi “in un pezzo di prosa o in una poesia che si sia conquistata con fatica, parola per parola” come una forma suprema di realizzazione: “Di una cosa sono sempre più certa infatti: il verso di una poesia è altrettanto reale di una tessera per il formaggio o dei geloni; a chi mi dice ‘ma tu vivi dentro un libro’ rispondo: ‘E non è un libro tanto reale quanto un aeroplano?’”. A incoraggiare la giovane amica dalla sensibilità linguistica tanto spiccata a scrivere fu il suo mistagogo chiromante che, sin dalle prime sedute, le suggerì di tenere un taccuino, “per affidare l’animo costipato a uno stupido foglio di carta a righe”, protestava lei, recalcitrante e impacciata sulle prime, irritata dalla difficoltà di mettere per iscritto pensieri che le parevano tanto chiari nella testa. “Dev’essere più che altro la vergogna”, immaginava, cercando giustificazioni alle proprie remore. “E’ come nel rapporto sessuale: alla fine il grido liberatorio rimane sempre chiuso nel petto per timidezza”.

    La crescente disinvoltura, l’evidente, sempre maggiore piacere con cui l’autrice del diario prende a modulare la propria voce ha in certa misura qualcosa a che vedere con le sue disinibite esperienze sessuali: con la sublimazione di queste, con la sorvegliata disciplina delle pulsioni più profonde, con la severa attenzione ai moti del cuore, comunque avvertiti come più vitali della meditazione astratta, teoretica, mentale, dei pensieri che “deludono, affaticano, confondono”, dell’“acutezza intellettuale”, il freddo “ingegno analitico” che, rispetto ai fervori dell’anima (“una cosa sola con il corpo”) ingenerano “lo scherno, il cinismo, il dubbio, l’incertezza”. La conquistata sicurezza della sua intonazione ha a che vedere, scrive Etty, con “la Grazia, che nelle sue rare apparizioni deve unirsi a una tecnica rigorosa, educata, competente”.

    Che la Grazia evocata dalla giovane ebrea lettrice appassionata dei testi cristiani fosse quella divina viene fuori a poco a poco nel diario, inavvertitamente, con una naturalezza spontanea, quasi ingenua. “E poi sai, Ru, io ho una qualità così infantile che ogni volta mi fa trovare bella la vita e mi fa sopportare tutto così bene”, riferisce Etty trascrivendo nel diario il dialogo con un’amica avvenuto uno degli ultimi giorni trascorsi ad Amsterdam nell’attesa di ricevere da un momento all’altro l’avviso di partenza per la Polonia. “Sì, vedi, io credo in Dio”.

    A che cosa corrispondesse quel nome maiuscolo, che cosa rappresentasse per Etty la suprema istanza in cui dichiarava di aver fede, che cosa significasse quella parola “così primitiva”, “in fondo solo una metafora, un avvicinamento alla nostra più grande avventura interiore”, si accenna a più riprese nel diario. Dio, si legge nelle righe di Etty, è “la sorgente originaria che abbiamo dentro di noi”. E’ l’interlocutore segreto, “l’unico cui forse importano davvero le parole che scaturiscono inattese dalla mia stilografica”. E’ la promessa di salvezza, “il contatto con me stessa senza il quale potrei smarrirmi in ogni momento”. E’ “il principio creativo che qualche volta ho la sensazione di avere dentro di me e che definirei una parte di Dio, si deve solo avere il coraggio di dirlo”. Fu S. a darle il coraggio di dire quel nome senza inibizioni.

    Era il fulcro di un’esperienza di sé strettamente imparentata con la scrittura e con l’amore. Anche una forza fisica che agiva sul corpo, che “mi spinge a terra, mi induce a inginocchiarmi, a fare gesti così intimi come quelli dell’amore… Del resto c’è qualcosa di più intimo della relazione tra l’uomo e Dio?” si chiede Etty interrogandosi con impertinente curiosità sui rituali del suo uomo in preghiera. “Che cosa dice quando prega?” “Questo non glielo dico” rispondeva lui, che però si spingeva fino a confessarle: “Non mi masturbo mai dopo aver pregato”. “Conosco i suoi gesti intimi con le donne e ora vorrei ancora conoscere i gesti che fa per Dio. Prega tutte le sere? Si inginocchia nella cameretta? Nasconde la testa pesante dentro le sue grandi, buone mani? Si toglie la dentiera prima?”… “Ora lo so! S. prega dopo essersi tolto i denti. Del resto è logico. Si deve prima aver chiuso i conti con tutte le faccende terrene”.

    Quando Spier chiuse definitivamente i conti con le sue faccende e la sua vicenda terrena, quando morì prematuramente a 55 anni il giorno prima di essere trasferito al Lager di Westerbork da cui gli ebrei venivano spediti in Polonia, abbandonò la pupilla a metà del suo cammino. Ma Etty ormai era diventata abbastanza grande per andare avanti da sola. Cresciuta, grazie anche all’aiuto di S., fino a raggiungere una forma più adulta di scrittura e una capacità di amore meno possessivo, poté lasciare la presa di colui che tenendola professionalmente per mano l’aveva accompagnata per un lungo tratto e contare sulle sue proprie sole mani. Poté affidarsi alla “Menschenliebelinie” la linea dell’amore per l’umanità intera che portava profondamente incisa sui palmi. Toccare con la punta delle dita i contorni della propria epoca e considerarla in prospettiva, “testimoniando che Dio è vissuto anche in questi nostri tempi, che sono stati tempi grandi, un giorno ti dirò perché”. E, in mancanza di qualcuno cui porgerle aperte perché vi leggesse dentro, congiungere le proprie mani l’una all’altra per pregare – “due mani giunte e il ginocchio piegato: un gesto che a noi ebrei non è stato tramandato” –, inchinarsi al destino del mondo che “rotola melodiosamente dalla mano di Dio”.