Dicevano di Brasilia che è solo “fotogenica”, ma aveva ragione Niemeyer

Sandro Fusina

Di Brasilia, la capitale federale del Brasile, si sono dette molte cose. Si è detto per esempio che con i suoi grandi edifici dalla linea purissima, che sorgono in grandi spazi aperti, sia la città più fotogenica del mondo. Nell’osservazione è nascosta una punta polemica. Fotogenico non significa buono, cordiale, vivibile, soprattutto quando è detto di una città. Per Robert Hughes, ascoltato critico d’arte della rivista Time (“Guai nel paese di Utopia”, 1980), Brasilia, città per le Volkswagen e non per gli uomini, era l’esempio più compiuto del fallimento dell’architettura modernista.

    Di Brasilia, la capitale federale del Brasile, si sono dette molte cose. Si è detto per esempio che con i suoi grandi edifici dalla linea purissima, che sorgono in grandi spazi aperti, sia la città più fotogenica del mondo. Nell’osservazione è nascosta una punta polemica. Fotogenico non significa buono, cordiale, vivibile, soprattutto quando è detto di una città. Per Robert Hughes, ascoltato critico d’arte della rivista Time (“Guai nel paese di Utopia”, 1980), Brasilia, città per le Volkswagen e non per gli uomini, era l’esempio più compiuto del fallimento dell’architettura modernista. Che senso aveva disegnare una città con tante autostrade e nessun marciapiede quando degli abitanti solo uno su otto possedeva un’auto? Brasilia era il disastro prodotto da un grande architetto male ispirato dalla politica. Il grande architetto era Oscar Niemeyer. Il cognome tedesco, che forse aveva suggerito all’australiano Hughes l’immagine della città per Volkswagen, era il risultato della parsimoniosa concezione portoghese dei nomi di famiglia, che aggiungeva cognome a cognome, almeno per due generazioni. Niemeyer era il cognome di una nonna, originaria di Hannover. Gli altri tre quarti erano strettamente portoghesi. Il nome completo doveva essere Oscar Ribeiro Almeida de Niemeyer Soares. Perché gli fosse rimasto solo il cognome tedesco lo stesso Niemeyer non cercava di spiegarselo.

    La concezione del piano di Brasilia, che alla lunga si sarebbe rivelato meno cervellotico e disastroso di quanto Hughes aveva preconizzato, non era neppure di Niemeyer. A Niemeyer, Juscelino Kubitschek, appena eletto presidente del Brasile, aveva, è vero, affidato nel 1956 il suo progetto di realizzare finalmente quella capitale al centro del Brasile che era un sogno che risaliva ai tempi dell’imperatore Pedro I. Ma per il master plan della città Niemeyer si era affidato al suo grande amico Lúcio Costa. Quanto a lui, in pochi mesi, aveva disegnato: la cattedrale, il palazzo del Parlamento, il complesso culturale della Repubblica (ovvero la Biblioteca nazionale, più il Museo nazionale), il palazzo presidenziale (Palacio de Alvorada), e la Corte suprema federale. La cosa straordinaria, considerata almeno da un punto di vista italiano, fu che l’intero complesso era già completato nel 1960.
    Nel 1964 in Brasile ci fu un colpo di stato militare. Le esplicite simpatie comuniste avevano già impedito a Niemeyer di lavorare pienamente negli Stati Uniti. Già il suo progetto per il palazzo delle Nazioni Unite, congiunto a quello di Le Corbusier, che considerava suo maestro, era stato in pratica assorbito da altri architetti; già non aveva potuto ricoprire gli insegnamenti che gli erano stati offerti dalle università di Yale e di Harvard. Nel 1964 dovette lasciare la Facoltà di architettura dell’Università di Brasilia e uscire dal paese. Per non smentirsi visitò Cuba e l’Unione sovietica, ma aprì lo studio a Parigi. A Parigi costruì la sede del Pcf; a Milano la sede della Mondadori; in giro per il mondo un gran numero di edifici entrati nella storia dell’architettura. Nel 1985 tornò  in Brasile. Nel 1988 gli fu assegnato il premio Pritzker, il Nobel dell’architettura. Mercoledì 5 dicembre è morto. Stava per compiere 105 anni.