Paradigma Romney

Una Washington meno sognante

Domenico Lombardi

Ancora incerto l’esito delle elezioni presidenziali americane, anche se gli ultimi sondaggi avvalorano la prospettiva di una rielezione di Barack Obama. In un certo senso, l’esito delle presidenziali è meno importante rispetto al rapporto di forza che le contestuali elezioni congressuali definiranno con il prossimo presidente. Oggi, in gioco, oltre alla Casa Bianca vi è anche la rielezione dell’intera Camera bassa e di un terzo dei seggi del Senato.

    Ancora incerto l’esito delle elezioni presidenziali americane, anche se gli ultimi sondaggi avvalorano la prospettiva di una rielezione di Barack Obama. In un certo senso, l’esito delle presidenziali è meno importante rispetto al rapporto di forza che le contestuali elezioni congressuali definiranno con il prossimo presidente. Oggi, in gioco, oltre alla Casa Bianca vi è anche la rielezione dell’intera Camera bassa e di un terzo dei seggi del Senato. Assumendo una vittoria di stretta misura dell’attuale presidente, potrebbe accadere che la compagine democratica al Senato, che conta 51 membri su 100, più due senatori indipendenti affiliati, si riduca di misura. Se questo scenario si delineasse, il nuovo presidente sarebbe comunque, almeno in parte, repubblicano; certamente ancora di più se la Camera bassa dovesse rimanere a maggioranza Grand Old Party. E’ probabile infatti che un eventuale secondo mandato di Obama recepisca alcuni spunti dell’agenda Romney nell’esplicitare obiettivi più ambiziosi in politica fiscale, riorientando pertanto la posizione del governo federale rispetto al contenimento della crisi europea.

    Sinora il presidente in carica ha preferito evitare di impegnarsi su una strategia di consolidamento fiscale lasciando, di fatto, l’iniziativa al Congresso che gli ha costruito in via preventiva un perimetro assai stretto da cui sarà difficile uscire. Tanto per cominciare, l’imminenza del cosiddetto “fiscal cliff”, un combinato di incrementi di imposte e di tagli alla spesa che, salvo diverso accordo col Congresso, verrebbe attivato in via automatica nel prossimo anno, taglierebbe il deficit pubblico di 4 punti percentuali di pil. Allo stesso tempo, però, eroderebbe quella ripresa economica che proprio i dati più recenti indicano come si vada consolidando.
    La necessità di evitare una scure indiscriminata e automatica che abbatterebbe, oltre al deficit, anche il prestigio del rieletto presidente, imporrà a un eventuale Obama2 un negoziato con i parlamentari repubblicani nel tentativo di far propri alcuni elementi della loro agenda politica, a partire da un maggior rigore nei conti pubblici, nella speranza di guadagnare libertà di azione su altri.

    Sull’Europa, è probabile che il secondo mandato di Obama comporti un presidente più assertivo rispetto a quello in azione nei primi quattro anni, in cui la sofisticata capacità di intelligence e analisi della sua Amministrazione non si è tradotta in una corrispondente leadership politica nel contesto politicamente frammentato dell’Eurozona. Proprio la prospettiva di mitigare l’effetto recessivo della stabilizzazione fiscale sulla domanda interna imporrà un maggiore attivismo nelle relazioni economiche internazionali che saranno più visibilmente orientate allo stimolo delle fonti di domanda estera (Germania in primis).

    L’agenda europea del nuovo presidente si concentrerà, in particolare, su due capitoli. Intanto spingerà per una risoluzione della crisi greca ancorandone stabilmente le sorti a quelle dell’Eurozona, favorendo un approccio di più ampio respiro che includa, fra le varie misure, una seconda ristrutturazione del debito pubblico, secondo le linee già tracciate dall’alta direzione del Fondo monetario internazionale (Fmi) e finora respinte dalla Germania. Dal momento che il settore privato detiene solo un quarto, al più un terzo, dello stock complessivo di debito, tale ristrutturazione dovrà necessariamente includere i creditori ufficiali europei, in particolare la Banca centrale europea con i suoi circa 50 miliardi di titoli greci in portafoglio. Proprio gli ultimi dati indicano che il rapporto tra debito e pil di Atene si attesterà intorno al 190 per cento l’anno prossimo, contro ogni previsione formulata sinora dalla Troika. Pertanto, senza un accordo su una nuova ristrutturazione del debito, è difficile ipotizzare ulteriori, pingui erogazioni di credito dall’istituzione di Washington, il cui atteggiamento intransigente verrà progressivamente incoraggiato dalla nuova Amministrazione.

    L’insofferenza per le lentezze italiane
    L’altro capitolo della crisi europea riguarda la necessità di incoraggiare i governi dei paesi più deboli dell’Eurozona a intraprendere riforme strutturali che mitighino gli effetti recessivi indotti dal consolidamento fiscale simultaneo dell’Eurozona. Nell’edificio attiguo a Pennsylvania Avenue, dove ha sede il Tesoro, non si nasconde un certo rammarico, che a tratti diventa irritazione, sia pure educatamente celata, rispetto al calo di tensione osservato su questo fronte proprio in Italia contrariamente alle aspettative inizialmente generate. Da domani, questa frustrazione arriverà anche allo Studio ovale, chiunque ne sarà il nuovo occupante.