La guerra segreta Obama-Merkel

Domenico Lombardi

A meno di tre mesi dalle elezioni presidenziali americane, la ripresa economica negli Stati Uniti continua a segnare il passo. L’ultimo dato relativo al secondo trimestre dell’anno in corso registra una crescita del pil dell’1,5 per cento e, per quello in corso, le aspettative sono per un valore inferiore al 2 per cento. Nel complesso, l’accelerazione dell’attività economica dalla crisi finanziaria del 2007-09 non è stata sufficiente a stabilizzare il mercato del lavoro sui livelli pre crisi.

    A meno di tre mesi dalle elezioni presidenziali americane, la ripresa economica negli Stati Uniti continua a segnare il passo. L’ultimo dato relativo al secondo trimestre dell’anno in corso registra una crescita del pil dell’1,5 per cento e, per quello in corso, le aspettative sono per un valore inferiore al 2 per cento. Nel complesso, l’accelerazione dell’attività economica dalla crisi finanziaria del 2007-09 non è stata sufficiente a stabilizzare il mercato del lavoro sui livelli pre crisi, con la conseguenza che il tasso di disoccupazione si mantiene su valori eccedenti l’8 per cento dal febbraio del 2009. In questo quadro, l’eventuale, ulteriore riacutizzarsi della crisi europea e la prospettiva di una sua interazione incontrollabile con le vulnerabilità presenti nell’economia americana allarmano il presidente Barack Obama. Alla Casa Bianca sono consapevoli che il quadro fiscale domestico è piuttosto debole. Nel 2009, il deficit di bilancio in proporzione al pil era pari al 13 per cento, non dissimile da quello registrato dalla Grecia lo stesso anno. Nel 2011 è diminuito, pur toccando quasi il 10 per cento del pil. Si prevede che alla fine dell’anno in corso il debito pubblico sarà aumentato di quasi la metà rispetto al 2008 – dal 76 al 107 per cento del pil –, giustificando il timore che la pressione dei mercati su debitori di dimensione sistemica come l’Italia possa presagire un più attento scrutinio degli investitori internazionali su altri, grossi debitori sovrani. A maggior ragione, visto che, complice un Congresso diviso, Obama non è riuscito a far approvare un piano di stabilizzazione del debito nel medio periodo. Anzi, in assenza di un accordo legislativo a breve per il rinnovo di alcuni provvedimenti in materia fiscale, l’incremento automatico dell’imposizione fiscale che ne seguirebbe e l’abbattimento anch’esso automatico di alcune voci di spesa, il cosiddetto “fiscal cliff”, porterebbe l’economia in recessione secondo le previsioni del bipartisan Congressional Budget Office. Si comprende come nuovi, imprevedibili sviluppi dal nostro lato dell’oceano potrebbero innescare uno tsunami finanziario che travolgerebbe la presidenza proprio alla vigilia delle elezioni il prossimo 6 novembre con conseguenze irreversibili sul piano elettorale per l’attuale inquilino della Casa Bianca.
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    A dire il vero, gli strateghi del presidente avevano intravisto nella gestazione della crisi greca, già dall’autunno del 2009, i potenziali germi di una crisi sistemica individuando da subito nella Germania la chiave di volta nella risoluzione della crisi.
    Coerentemente con questo approccio, gli Stati Uniti iniziarono a sollecitare Berlino, per il tramite del Fondo monetario internazionale (Fmi), ad appoggiare un intervento tempestivo per arginare il temuto dilagare della crisi. Eppure, il primo programma per la Grecia è stato poi approvato solo nel maggio dell’anno seguente, per un multiplo pari a quasi quattro volte l’ammontare necessario inizialmente stimato e, ciò nonostante, ancora insufficiente rispetto all’ulteriore deteriorarsi delle condizioni economiche. Pochi mesi dopo, a partire dall’autunno del 2010, l’Amministrazione americana aveva registrato, del tutto impreparata, i primi segni evidenti di una politica tedesca che i consiglieri del presidente cominciavano a tratteggiare, seppure dietro le quinte, come elemento potenzialmente destabilizzante per l’interesse nazionale americano. Da quel momento, è cominciata una nuova dinamica nelle relazioni tra Washington e Berlino che, in apparenza, non è sempre facile decifrare: per ricomporre il puzzle, infatti, bisogna includere il ruolo giocato da Pechino e ricostruire gli obiettivi che ciascuno di questi attori ha avuto in una relazione triangolare particolarmente incestuosa che ha determinato, di fatto, la paralisi nell’attivismo internazionale che ha caratterizzato la fase iniziale del mandato presidenziale di Obama.
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    Tutto comincia in Asia. Nell’ottobre del 2010, all’incontro dei ministri delle Finanze e dei banchieri centrali del G20 a Gyeongju in Corea del sud, in preparazione per il summit di Seul, gli Stati Uniti contavano di far leva sull’accresciuto senso di cooperazione internazionale che si era manifestato all’apice della crisi finanziaria per indurre la Cina a riequilibrare il proprio avanzo delle partite correnti che, nel 2007, aveva toccato il valore apicale di oltre il 10 per cento rispetto al pil. Washington non ha mai fatto mistero di considerare le politiche mercantilistiche di Pechino l’ostacolo principale a un riequilibrio delle proprie partite correnti che non fosse deflazionistico per l’economia americana. In altri termini, secondo l’Amministrazione americana, l’aggiustamento dovrebbe avvenire tramite un incremento della domanda interna cinese, così da riequilibrare le partite correnti americane con un aumento delle esportazioni nette verso il resto del mondo e, in particolare, la Cina. Con questo obiettivo chiaramente definito nella propria agenda nazionale, il neo presidente, coadiuvato da uno staff con esperienza internazionale, già al momento del suo insediamento intravedeva nel foro delle economie sistemiche del G20 – cioè quelle economie di dimensioni tali che, con i cambiamenti che singolarmente le investono, positivi o negativi che siano, finiscono per influenzare le dinamiche del sistema economico globale – lo spazio strategico per il suo conseguimento.

    Nella terna di consiglieri del presidente, Timothy Geithner, il giovane segretario al Tesoro, proveniva dagli alti ranghi del Fmi, dove aveva avuto la responsabilità del potente dipartimento centrale che scrive, approva e controlla ogni singola decisione che il direttore generale dell’istituzione multilaterale sottopone al suo consiglio di amministrazione. In tale ruolo, Geithner aveva partecipato alle riunioni dei vari fori internazionali e apprezzato la pressione che tali meccanismi possono, talvolta, esercitare sulle scelte di un paese, confermando del resto le lezioni apprese nella sua precedente incarnazione di sottosegretario per gli Affari internazionali al Tesoro nell’Amministrazione Clinton. Come il giovane segretario, anche il suo sostituto per gli Affari internazionali, Lael Brainard, aveva servito nella medesima Amministrazione negli anni Novanta e portava nel team di Obama il prestigio accademico di grandi università come il Mit e il pragmatismo di think tank americani come la Brookings Institution. Proprio alla Brookings, aveva sensibilizzato le élite di Washington rispetto a una nuova configurazione di summit delle economie sistemiche allargate ai grandi paesi emergenti: i leader del G20, per l’appunto.  Faceva loro da sponda, sempre su Pennsylvania Avenue, accanto allo studio ovale della Casa Bianca, il criptico David Lipton, assistente personale di Obama per gli Affari economici internazionali (da metà 2011 diventato numero due di Christine Lagarde al Fmi). Come Geithner, anche Lipton veniva dai vertici del Tesoro nell’Amministrazione Clinton e, ai tempi della crisi asiatica negli anni Novanta, aveva seguito da vicino – alcuni dicono suggerito – i contenuti dei programmi di stabilizzazione e privatizzazione a cui il Fmi aveva condizionato la sua assistenza finanziaria. Sia Geithner sia Lipton avevano constatato come una partnership dei paesi investiti dalla crisi con il Fmi potesse facilitare il perseguimento di obiettivi strategici nazionali.

    E’ in questo contesto che la nuova Amministrazione, appena insediatasi, ha maturato la scelta di fondo di puntare sul G20 come foro di consultazione fra le economie sistemiche avanzate ed emergenti. Coerentemente con questa scelta, nel primo summit presieduto da Obama a Pittsburgh nel settembre 2009, i leader del G20 si autodefinirono il “principale foro per la cooperazione economica internazionale”. In quella sede, l’Amministrazione presentò una proposta per il coordinamento delle politiche macroeconomiche volta a intensificare la pressione sulla Cina facendo leva su canali di influenza multipli a livello intergovernativo, multilaterale e bilaterale. A livello intergovernativo, gli Stati Uniti proponevano che fosse proprio il G20 a vagliare i progressi nell’ambito della piattaforma di coordinamento da loro proposta. Come consigliere fidato del principe veniva chiamato il Fmi, nel suo ruolo di alto consulente tecnico, il quale avrebbe istruito le discussioni in materia dei capi di stato e di governo. Allo stesso tempo, l’istituzione multilaterale continuava ad agire in base al suo mandato istituzionale esercitando un’ulteriore fonte di pressione sulla Cina. Infine, a livello bilaterale, il presidente Obama annunciava, al margine del primo summit del G20, a Londra nell’aprile 2009, il rafforzamento del tavolo di dialogo con la Cina, embrione di un possibile, futuro G2.

    Pertanto, già a fine 2009, solo pochi mesi dopo il suo insediamento, l’Amministrazione Obama aveva disposto in campo tutti gli elementi per conseguire la propria strategia di interesse nazionale facendo opportunamente leva sulla nuova governance dell’economia globale. Ne riconosceva la natura multipolare, ma si collocava strategicamente come elemento pivotale del sistema, con l’idea di assicurarsi che l’agenda fosse funzionale al suo interesse nazionale. Assecondando la metamorfosi del sistema economico mondiale, la presidenza Obama – apparentemente internazionalista e multilateralista come nessun’altra dai tempi dell’istituzione dell’ordine di Bretton Woods nel secondo Dopoguerra – sembrava assicurare la centralità degli Stati Uniti nella nuova piattaforma di global governance. In linea con l’approccio “politicamente corretto” della Casa Bianca, gli Stati Uniti sponsorizzavano un pacchetto di riforme del Fmi teso a rafforzare il ruolo delle economie emergenti nei meccanismi decisionali dell’istituzione, sulla base dell’assunto implicito che maggiori diritti di voto indurranno la Cina ad assumersi, simmetricamente, maggiori responsabilità nel sistema economico internazionale. Il pacchetto di riforme del Fmi prevede, infatti, l’incremento del potere di voto di Pechino al 6 per cento, facendone il terzo azionista dopo Washington e Tokyo, con Brasile, Russia e India che si collocano fra i primi dieci paesi membri. Il piano di riforma, sostenuto con forza dal G20 sotto la presidenza coreana, è stato ratificato dall’assemblea degli azionisti del Fmi alla fine del 2010. Da quel momento comincia la fase finale di ratifica da parte dei singoli paesi membri che si sono impegnati a concludere entro ottobre del 2012. Poiché tale ratifica richiede l’approvazione di almeno quattro quinti dei paesi membri che dispongano dell’85 per cento dei voti, gli Stati Uniti, con la loro quota del 17 per cento, hanno di fatto l’ultima parola. E’ tuttavia significativo che, a oggi, essi non l’abbiano ancora ratificato: l’Amministrazione che aveva creato la premessa politica per questa riforma ne ha, alla fine, determinato lo stallo. Cosa è accaduto?
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    Di nuovo, la risposta è in quel meeting del G20 in Corea del sud che ha rappresentato il punto di flesso della strategia economica internazionale della Casa Bianca di Obama, esattamente a metà del suo mandato elettorale. La proposta dell’Amministrazione di introdurre dei parametri numerici ai quali ancorare il riequilibrio non deflazionistico dei conti con l’estero di Cina e Stati Uniti è stata bloccata sul nascere dall’asse, sino a quel momento piuttosto celato, tra Pechino e Berlino, che hanno posto un veto preventivo rispetto a qualsiasi tentativo di riequilibrare in sede multilaterale gli squilibri di parte corrente. Sebbene l’attenzione dei circoli di Washington si era concentrata fino a quel momento esclusivamente sulla Cina, la Germania era stata in grado di accumulare per la sua economia avanzi consistenti, persino superiori in proporzione al pil a quelli della Cina.  Questo rifletteva l’accresciuta competitività della sua economia, ma anche l’assenza – nell’area dell’euro – del vincolo di un meccanismo compensativo fornito dall’apprezzamento del cambio che, invece, operava in precedenza con il marco tedesco.  Proprio a partire da quell’ottobre del 2010, si diceva, è divenuta pienamente evidente all’Amministrazione Obama la relazione preferenziale fra i due paesi. Anzi, a fronte del dilagare della crisi nell’Eurozona, Berlino ha intensificato gli sforzi politici, diplomatici e commerciali per penetrare i mercati emergenti asiatici con l’obiettivo di compensare, nel medio periodo, la contrazione attesa per il proprio export nelle economie europee in crisi. Con il risultato, secondo fonti americane, che le imprese tedesche godrebbero di condizioni preferenziali di accesso al mercato cinese anche rispetto a quello di omologhe aziende americane. Nel complesso, si è fatta dunque strada nell’Amministrazione la consapevolezza che l’obiettivo di aprirsi un varco privilegiato nell’enorme mercato della “fabbrica del mondo” non sembra essere stato veramente conseguito. Per contro, in un esercizio psicoanalitico di retropensiero, diventa chiara tutta l’ambiguità dell’Eurozona, dietro la sapiente regia tedesca, mostrata negli anni precedenti in cui Washington aveva chiesto a gran voce, ma senza trovare una sponda amica dall’altro lato dell’Atlantico, un riesame delle politiche mercantilistiche di Pechino e la fine di interventi unilaterali nel mercato dei cambi per svalutare la valuta asiatica rispetto al dollaro. Infine, ed è storia recente, emerge nella rigidità tedesca nella gestione della crisi dell’euro che, da un lato, ostacola qualsiasi soluzione cooperativa fra gli stati membri dell’Eurozona, e dall’altro delimita in modo ossessivo il perimetro degli interventi della Banca centrale europea.

    Il summit del G8 di Camp David del maggio scorso, durante il quale la Casa Bianca aveva cercato di indurre la Germania a una posizione più conciliante nell’interesse di salvaguardare la stabilità dell’economia mondiale, si è rivelato un fallimento alla luce degli sviluppi modesti del summit europeo di fine giugno.
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    Se l’analisi degli strateghi del presidente è perfettamente chiara nell’identificare nella intransigente posizione tedesca l’elemento di fragilità delle varie soluzioni messe in campo sinora, il suo staff rimane cauto nel raccomandare al presidente possibili contromisure in un periodo dove il “fare” può costare di più del “non fare” in termini elettorali. Tali contromisure prevedono due opzioni: l’utilizzo del Fmi in chiave antitedesca e l’intervento finanziario del Tesoro americano e/o della Federal reserve ai fini di una discesa in campo americana volta a dare una scossa al dibattito europeo posto sotto il giogo tedesco.

    La prima opzione è già operativa: nel marzo scorso, il Fmi ha bruscamente ridimensionato la sua quota nel secondo programma con la Grecia e ha successivamente congelato i finanziamenti allo stato ellenico. Tanto è che, per far fronte a un’importante scadenza del Tesoro greco verso la Bce nei prossimi giorni, le autorità hanno dovuto emettere dei titoli a breve a costi maggiorati. In altre parole, se prima l’Amministrazione dava il proprio appoggio a ogni iniziativa del Fmi in Europa, pur nella consapevolezza di un quasi sicuro fallimento, con l’obiettivo di usarlo come leva nelle proprie trattative con la Germania, ora punta i piedi per terra obbligando gli europei e, in primis, la Germania ad accollarsi tutti gli oneri del caso.

    La seconda opzione, non ancora operativa, è un intervento finanziario diretto utilizzando le riserve valutarie in carico direttamente al Tesoro o la potenza di fuoco della sua Banca centrale. L’obiettivo è quello di galvanizzare i mercati con la discesa in campo dell’ancora potente nazione in funzione di supplenza di una logorata leadership tedesca. Ma è improbabile che ciò possa avvenire prima delle elezioni americane di novembre. A meno che la Fed, autonoma nella sua operatività rispetto al Congresso, non decida di unire le forze con la sua controparte europea per stordire i mercati con un raid preventivo e concertato con la Bce nella prossima riunione della Federal Open Market Committee il mese prossimo. Una cosa è certa: se Obama pensava di concentrare un eventuale secondo mandato sul rafforzamento delle relazioni con i paesi del Pacifico, è ormai chiaro che la via per l’Asia passa per Berlino da cui, oggi, dipendono le sorti dell’economia mondiale, non solo europea.