Mediobanca: storia di uno scandalo degradante

Ugo Bertone

Enrico Cuccia, che quelli di Paternò li conosceva bene, non ci sarebbe mai cascato. Ma Alberto Nagel, che pure vanta sangue calabrese da parte di madre, la sua gavetta l’ha fatta nelle scuole bene, quel Leone XIII dove si è plasmato il giovane Mario Monti, per poi proseguire in Bocconi e di lì in Mediobanca. Bella scuola, ma a che serve quando ti trovi in faccia un ottantenne e più dall’aria sconvolta com’era Don Salvatore Ligresti a metà maggio, quando si consumava il crollo del suo impero? Ligresti, si racconta in Mediobanca, era fuori di sé, sconvolto perché né Unicredit né Unipol rispondevano alle sue chiamate.

Leggi Fare Cuccia senza essere Cuccia di Stefano Cingolani

    Enrico Cuccia, che quelli di Paternò li conosceva bene, non ci sarebbe mai cascato. Ma Alberto Nagel, che pure vanta sangue calabrese da parte di madre, la sua gavetta l’ha fatta nelle scuole bene, quel Leone XIII dove si è plasmato il giovane Mario Monti, per poi proseguire in Bocconi e di lì in Mediobanca. Bella scuola, ma a che serve quando ti trovi in faccia un ottantenne e più dall’aria sconvolta com’era Don Salvatore Ligresti a metà maggio, quando si consumava il crollo del suo impero? Ligresti, si racconta in Mediobanca, era fuori di sé, sconvolto perché né Unicredit né Unipol rispondevano alle sue chiamate. Non ci resta che Mediobanca, che ci ha sempre dato una mano. Altrimenti, avrebbe detto il vecchio re del mattone di Milano, la faccio finita. Ecco perché ho siglato la fotocopia di un foglio di carta  – sostiene Nagel – che altro non era che “un elenco dei desiderata della famiglia Ligresti”. Insomma, un contentino a un vecchio che fu grande. Ieri, secondo l’AdnKronos, l’ad avrebbe scritto ai consiglieri e ai membri del patto di sindacato di Piazzetta Cuccia per chiarire la propria posizione, ribadendo di non avere nessuna responsabilità e di non aver concluso nessun patto segreto. Indiscrezione poi smentita. Ma resta un punto: si può credere che un banchiere, non uno qualsiasi bensì l’erede di Vincenzo Maranghi e dello stesso Cuccia, rilasci firme del genere a cuor leggero?

    L’elenco dei desiderata della famiglia Ligresti è stato redatto negli stessi giorni in cui Mediobanca e Unipol erano impegnati a ottenere dalla Consob l’esenzione dall’Opa su Fonsai per la compagnia bolognese, consapevoli che in commissione andava maturando la posizione per cui il privilegio poteva essere concesso solo a una condizione: nessun quattrino ai Ligresti. Era il caso, in questa cornice, di vistare come un Babbo Natale fuori stagione, la letterina dei desiderata dell’ex dinastia di Paternò? Mica roba da poco: un tesoretto da 45 milioni, più un posto per il figlio Paolo in Fondiaria (in Svizzera, però). Una buonuscita per le figliole, l’autista e la segretaria per  papà. Le vacanze pagate per tutti, più la tenuta Cesarina cui don Salvatore tiene più che a (quasi) ogni altra cosa. Tanti dettagli, sospetta la procura di Milano, rendono credibile l’ipotesi che si trattasse di un vero e proprio impegno contrattuale.
    E poi, tanto per varcare il confine che separa la farsa dal dramma, c’è la trama della scoperta del “papello”. A rivelarne l’esistenza è stato Ligresti, ma Mediobanca, improvvidamente, ne ha negato a lungo l’esistenza. Poi sono saltati fuori  fogli non firmati, tra cui il presunto originale custodito dall’avvocato Cristina Rossello, segretario del consiglio di Mediobanca. Infine il coup de théâtre che fa impallidire qualsiasi trama di feuilleton. Lionella Ligresti, indomita amazzone imprestata alla finanza per obblighi famigliari, parte per una missione clandestina dall’avvocato Rossello, in passato legale anche dei Ligresti. Il pretesto? Chiedere la restituzione del “papello” originale, cosa che l’avvocato rifiuta: il foglio le è stato consegnato da entrambe le parti, quindi va ritirato con l’accordo dei due firmatari. Proprio quello che Lionella voleva sentire. Anzi, voleva che sentisse il microfono del registratore infilato nella sua Vuitton d’ordinanza. E’ grazie a questa registrazione, girata ai magistrati, che è saltata fuori la copia buona, con quella sigla di cinque lettere, Nagel, che minaccia di essere il più grave infortunio nella storia del salotto buono. 

    Chissà se Don Enrico, in una circostanza del genere, si sarebbe più preoccupato per i rischi in cui potrebbe incappare Mediobanca o più infuriato per quel comportamento da perfetto “pisquano” (l’offesa che il grande banchiere riservava alle grandi occasioni) del suo erede. Vincenzo Maranghi, che pure patì l’onta del tradimento  ad opera di Ligresti al momento della spallata di Cesare Geronzi, aveva sempre trattato con una certa diffidenza Salvatore Ligresti. Basti, al proposito, le parole con cui accompagnò la cessione di Fondiaria alla Sai dell’ingegnere di Paternò:  “Sono convinto – si legge –  che Lei sarà consapevole che la gestione del secondo gruppo assicurativo italiano non può più avere un taglio famigliare ma postula un cambio di passo”.
    Parole al vento. Ligresti, una volta realizzata la fusione tra la Sai e la Fondiaria,  non ha cambiato abitudini. Salvo accentuare la vocazione internazionale. Mica del gruppo Fonsai, semmai del patrimonio di famiglia, disseminato in scatole nei paradisi fiscali che Consob e pm sospettano sia cosa sua.

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