Lo stragista di Aurora e il fallimento del canone americano sui giovani

Stefano Pistolini

Qualche riflessione a freddo dopo la “seconda strage di Denver”, perpetrata dal ventiquattrenne James Holmes, mentre si è creato uno scenario emotivo complesso e confuso, col processo al responsabile che comincia subito, con i cinema in città dove si proietta la pellicola di Batman che si riempiono, coi superstiti che si sposano (come in un film) e con Barack Obama che nel fine settimana arriva a dare conforto, senza risposte efficaci, ma dicendo almeno una cosa giusta, allorché afferma d'essere lì come padre angosciato prima che come presidente decisionista.

    Qualche riflessione a freddo dopo la “seconda strage di Denver”, perpetrata dal ventiquattrenne James Holmes, mentre si è creato uno scenario emotivo complesso e confuso, col processo al responsabile che comincia subito, con i cinema in città dove si proietta la pellicola di Batman che si riempiono, coi superstiti che si sposano (come in un film) e con Barack Obama che nel fine settimana arriva a dare conforto, senza risposte efficaci, ma dicendo almeno una cosa giusta, allorché afferma d’essere lì come padre angosciato prima che come presidente decisionista.
    Si può partire dalla pluralità degli eventi. Per esempio dal fatto che secondo Google Maps ci sono 21,8 miglia tra Columbine e Aurora, nella circonferenza esterna di Denver, e che le persone che sono state sfiorate dalla strage del liceo del ’99 continuano a vivere nel compound nel quale, tredici anni dopo, la proiezione di mezzanotte per il debutto del “Cavaliere Oscuro” si è trasformata in una carneficina. Semplicemente non muovendoti da casa, ti può capitare più di una volta nella vita e dunque non è un evento eccezionale.

    Poi il fatto che, qui davvero sfidando i calcoli delle probabilità, una delle vittime falciate da Holmes, la giornalista sportiva Jessica Redfield, fosse sfuggita pochi giorni prima a un altro shooting spree, andato in scena oltreconfine, a Toronto, e diligentemente raccontato sul suo blog. Di nuovo, un plurimo inciampo in una situazione a massimo rischio nella quale è probabile rimetterci la pelle. Perciò parliamo di ricorrenza: pazza, tragica, bestiale, ma fattuale, scandita da un ritmo che rasenta la matematica e incappa nella periodicità, come ci informano le cronache americane (almeno 12 episodi del genere nel XXI secolo, a cui peraltro ne corrispondono 14 nella vecchia Europa). Una concatenazione di eventi che sono un segno dei tempi, prodotto d’una orribile valvola di sfogo sociale. Un dato accertato del presente americano a fronte del quale continua a non concretizzarsi l’interventismo invocato dagli editorialisti d’oltreconfine – a cominciare dal controllo delle armi, procedimento auspicabile quanto improbabile, per la problematica costituzionale e per la natura impopolare oltre che di tardiva e dubbia efficacia (l’America trabocca di armi, ne è intrisa. Levarle di torno, all’orecchio americano, suona paradossale quanto risolvere l’immigrazione clandestina con le deportazioni). Per cui da noi ci si scandalizza, ma in modo inane, mentre in America prevalgono lo sbigottimento, il lutto, la rassegnazione di fronte al flagrante insuccesso sociale. Noi scriviamo che è questione di pressioni della Nra e delle altre lobby delle armi, ma le cose non stanno in modo così semplicistico: un sistema ambizioso è al cospetto delle sue debolezze e delle sue tragiche disfunzioni.

    Prevale lo stordimento collettivo, prima di ricominciare a rinserrare le fila. Anche perché le considerazioni a margine sono sconcertanti. I titolari delle stragi sono giovani acculturati – lo sfondo ricorrente è quello dell’educazione superiore, licei, università, quartieri residenziali. Giovani uomini insospettabili, non maniaci delle armi, pazzi guerrafondai, serial killer. Non è materia da ghetto, non è prodotto da emarginazione. A Denver si vive bene, c’è benessere e funzionalità, c’è bellezza, ricchezza e opportunità, nel più tipico american style. Perciò è un dramma che prende forma dentro, è un mostro autogenerato. E questo è più doloroso e angosciante. E la reazione è lenta, perché il primo timore è quello dell’epidemia, dell’imitazione, della propagazione.
    Da noi invece queste notizie hanno successo. C’è un gusto revanscistico a vedere l’America dibattersi e poi c’è la spettacolarità della messa in scena, il brillare delle sirene come in un film, col brivido che è tutto vero. E rimettiamo l’America alla berlina, anche se il conteggio dei nostri crimini d’appartamento, dei delitti coniugali, delle tragedie passionali e d’interesse dovrebbero farci riflettere sullo stile mediterraneo e latino d’ammazzare. Istruiamo processi occasionali all’America. Mettiamo sotto accusa perfino Batman, complice se non ispiratore della strage. Non che non si possa ipotizzare una perversa connessione tra il ripulitore di Gotham e il progetto di Holmes di compiere la sua azione la sera della prima. Il problema è che Batman è l’America, è un prodotto organico, tutta la società dello spettacolo è come Batman e lui stesso è una fioritura spontanea della cultura e dell’estetica su cui l’America è diventata – a modo suo – adulta. Perciò si finisce in un cul de sac: è più facile sciogliere l’Unione che destituire i suoi supereroi e i superpoliziotti, sublimazione del concetto religioso di angelo custode.

    Il rompicapo sta nel fatto che queste tragedie prendono forma a partire da un barlume d’idea che nasce nell’imperscrutabilità di cervelli giovani. Un luogo molto strano, secondo l’ultima neuroscienza, dove categorie accertate e condivise, di ordine emotivo, etico, narrativo, o afferenti la sfera dei valori reali, presentano risultanze spesso sconcertanti, se non preoccupanti. Esposti ai procedimenti educativi, informativi e di crescita contemporanei, i ragazzi americani (non solo loro, ovviamente) crescono attraversando una misteriosa fase di adattamento alla “normalità” adulta, nel corso della quale si possono produrre pericolosi cortocircuiti. E’ una terra di nessuno che si analizza con disagio, perché, questa sì, ci coinvolge tutti – genitori, educatori, comunicatori. Si arriva presto alla riflessione sui meccanismi di esclusione che regolano la sfida competitiva a cui sono sottoposti i giovani. Che riguarda in particolare quanti dispongano di opportunità – un’educazione completa, per esempio – in coincidenza col periodo dello studio e della formazione e col posizionamento nella mappa del proprio ambiente sociale e professionale. Attenzione, avvisa il canone americano: se si resta indietro, se si perdono colpi, se si tradisce la norma, se si dirazza, se si viene individuati come anelli deboli, si va incontro al fallimento. Lì capita s’inneschino rabbia e disperazione, si ecciti la solitudine, il senso di persecuzione, il desiderio di vendetta. E in quei paraggi si sistemano le biografie di buona parte dei titolari delle stragi “giovani” degli ultimi anni. Burnout, a volte visibili, ma più spesso latenti o nascosti. Ragazzi convinti di non avercela fatta – con una geografia di colpe e rivendicazioni da sanare.
    E’ possibile che in queste psicologie il mondo cambi tinte e distorca le proprie forme. Che s’impallidiscano le mediazioni, sfumino le possibilità, rimbalzino i tentativi di recupero, giganteggi la crudeltà del compito del quale non si è stati all’altezza. Un incubo, un’ossessione, un countdown. In mezzo al quale, come in un brutto sogno provocato da troppa birra, possono fare capolino i supereroi, quelli che risolvono le crisi a colpi di poteri magici. Nella loro scia immaginaria, scintilla di una delirante rinascita. E così, in corso d’opera, nel cuore della notte, studenti non certo privi di prospettive cominciano a ordinare armi e munizioni sul Web. Per predisporre il loro secondo avvento, del quale la società, l’America, la propria città, non paiono tener conto. Il fuoco divamperà, come dice lo slogan del Cavaliere Oscuro. Poi sarà la pace.