Così Lin ha sedotto e abbandonato la New York del basket

Simone Trebbi

Un "New York minute", sinonimo di istantaneo e perfetto attestato della proverbiale fretta in cui versa la Grande Mela, è stato più che sufficiente per rimettere le valigie in mano a Jeremy Lin, questa volta con destinazione Houston, Texas. Lin è stato acquistato dalla franchigia dei Rockets con un contratto a dir poco sontuoso: 25 milioni di dollari per tre anni.

    Un "New York minute", sinonimo di istantaneo e perfetto attestato della proverbiale fretta in cui versa la Grande Mela, è stato più che sufficiente per rimettere le valigie in mano a Jeremy Lin, questa volta con destinazione Houston, Texas.

    Lin – taiwanese nel cognome e americano in tutto il resto essendo nato, cresciuto ed educato tra Palo Alto (San Francisco) e la Harvard University – è stato acquistato dalla franchigia dei Rockets con un contratto a dir poco sontuoso: 25 milioni di dollari per tre anni, offerta che la franchigia di New York ha rifiutato di pareggiare perdendo così il giocatore che della Grande Mela è riuscito a vivere – in pochi mesi – tutte o quasi le facce che la compongono.

    Per interi anni, prima dell'esplosione di metà febbraio, Jeremy è stato un anonimo gregario Nba dal passato sconosciuto e dal futuro altrettanto incerto. Per cominciare, i contratti periodici proposti dalle varie squadre erano a tal punto centellinati da rendere quasi impossibile la sola ricerca di una residenza momentanea, costringendolo così a dormire sul divano del fratello Josh, studente alla New York University, in un più che modesto appartamento nel cuore del Lower Upper Side di Manhattan.
    Divano, per la cronaca, immediatamente messo all'asta su Ebay e venduto per 20mila dollari ad un oscuro tifoso.

    Pochi mesi dopo gli astri si allineano in segno di buon presagio e una serie di circostanze incredibilmente propizie tra infortuni e cessioni fanno sì che il palcoscenico sia sgombro ed opportunamente apparecchiato per dare a vita a quel fenomeno conosciuto come Linsanity, dapprima solo neologismo e in seguito vero e proprio marchio registrato da Nike.

    La Nba – si sa – è una lega estremamente gerarchica. E così è bastato che la superstar della squadra, Carmelo Anthony, in ritiro da Londra con la nazionale Usa, definisse "ridicola e eccessiva" la cifra necessaria ai Knicks per mantenere il taiwanese per attivare un motore interno che trasmettesse a chi di dovere i giusti impulsi. Non solo la squadra si è privata di un giocatore vincente e combattivo, ma anche di una macchina da soldi su due gambe capace di risollevare le sorti di una intera città cestisticamente depressa.

    Non è difficile immaginare come la decisione della dirigenza bianco-arancio-blu abbia scatenato le ire dei tifosi, abituati da anni a sviluppare dalle costose tribune del Madison Square Garden un particolare e feticistico piacere verso le rocambolesche avventure della squadra cittadina, da sempre ridotta a meta di talentuosi ma anche lavativi e strapagati atleti che hanno ridotto ad un colabrodo l'aspetto finanziario e non solo della società.

    Complici diversi assi nella manica, tra cui spiccano due occhi a mandorla perfetti per rappresentare la Nba nel sempre più fiorente mercato asiatico, Jeremy Lin si è trasformato nello spazio di un mattino da brutto anatroccolo delle panchine ad una Cenerentola capace di regalare all'esigente pubblico newyorchese una sensazione ormai scomparsa da decenni, paragonabile soltanto a quella provata quando Latrell Sprewell cercò di strozzare l'odiato coach PJ Carlesimo in allenamento: l'entusiasmo. La stessa sensazione alla quale bisognerà disabituarsi in fretta e che nella storia recente dello sport newyorchese nessuno, neanche i figli della città stessa come Stephon Marbury (oggi più noto alle cronache per le risse e le indigestioni di vaselina nel campionato cinese che per il suo talento letale), erano mai riusciti ad accendere.