Più che da Moody's, il nostro declassamento dipende dal Fmi

Domenico Lombardi

E’ quasi ironico che la scorsa settimana, quando il consiglio di amministrazione del Fondo monetario internazionale (Fmi) considerava il rapporto annuale sull’Italia, immediatamente dopo Moody’s ne declassava ulteriormente il merito di credito, portandolo ad appena due tacche sopra il livello “spazzatura”. L’agenzia di rating americana, inoltre, continua a mantenere il suo outlook negativo, preannunciando possibili, ulteriori tagli al rating sovrano dell’Italia nei prossimi mesi.

    E’ quasi ironico che la scorsa settimana, quando il consiglio di amministrazione del Fondo monetario internazionale (Fmi) considerava il rapporto annuale sull’Italia, immediatamente dopo Moody’s ne declassava ulteriormente il merito di credito, portandolo ad appena due tacche sopra il livello “spazzatura”. L’agenzia di rating americana, inoltre, continua a mantenere il suo outlook negativo, preannunciando possibili, ulteriori tagli al rating sovrano dell’Italia nei prossimi mesi. Ma esiste una connessione tra i due eventi? Ovviamente sì. Il Fmi è l’unica agenzia internazionale con poteri statutari di monitoraggio e valutazione delle politiche macroeconomiche dei suoi 188 paesi membri, tra cui l’Italia. Nelle proprie analisi il Fmi mette in evidenza le fonti di vulnerabilità macrofinanziaria qualora esse possano avere un impatto sistemico sull’economia dei paesi membri. Anzi, deve farlo, altrimenti contravverrebbe all’obbligo statutario di esercitare la funzione di sorveglianza prescrittagli dall’articolo IV del trattato costitutivo. Il problema è che, nel caso dell’Italia, le principali fonti di vulnerabilità non vengono da tassi di cambio manipolati o settori finanziari eccessivamente indebitati ma da un difetto di coordinamento delle politiche economiche europee che impone al nostro paese dei costi di aggiustamento asimmetrici e non allenta la pressione dei mercati. Per la prima volta nella storia del Fmi, la minaccia non viene dalle autorità nazionali ma dall’agenda non proprio trasparente di quelle straniere, leggi Germania, e da istituzioni regionali, leggi Bce, che dovrebbero fare di più per calmierare quegli effetti derivanti da pura incertezza sistemica. Di qui, il disorientamento del Fmi che esita nel puntare il dito contro i suoi membri più influenti e non si discosta dalla tradizionale pratica di chiedere al paese in crisi (ancora) più riforme.

    Il Fmi, in consessi privati più che pubblici, ha più volte notato l’elevata correlazione fra le variabili di mercato in questa crisi e il conseguente effetto contagio che ne deriva. A titolo di esempio, l’attuale impennata dello spread riflette una nuova ondata di incertezza sistemica innescata dalle precarie condizioni del settore finanziario spagnolo, rispetto al quale, tuttavia, l’Italia non ha alcuna giurisdizione. Se il tasso di interesse al quale il Tesoro deve rifinanziare il suo debito riflette, in buona parte, variabili fuori dal controllo delle autorità di Roma, non sarebbe il caso di dirlo in modo chiaro? E se non lo dice il Fmi con la sua autorità sovranazionale e l’autorevolezza scientifica dei suoi economisti, chi lo dovrebbe dire?

    Nel rapporto, leggiamo, si loda l’impeto riformista del governo Monti, i cui obiettivi di avanzo primario sono i più ambiziosi in Europa. Ci sono poi utili consigli per rendere l’aggiustamento fiscale più coerente con la necessità di innalzare il potenziale di crescita nel medio e lungo periodo, tagliando le spese correnti e abbassando il carico fiscale. Si formulano stime sui guadagni per la crescita derivanti dall’attuazione delle riforme strutturali. Ma come si situano queste raccomandazioni che il Fmi elenca rispetto alla situazione di emergenza che stiamo vivendo? E qual è la loro rilevanza in un contesto in cui le riforme sinora attuate, di cui il Fmi dà credito, non hanno sortito alcun effetto in termini di contenimento della pressione di mercato? La risposta, sembra essere “di più”, nel senso, appunto, che bisogna fare di più, ma a Roma non a Francoforte o a Bruxelles. L’appiattimento del rapporto di sorveglianza sulle posizioni tedesche è più che evidente. Ebbene, se il Fmi non distingue chiaramente le responsabilità nella gestione della crisi, perché dovremmo criticare le agenzie di rating che quelle valutazioni usano come input nelle decisioni sul merito di credito sovrano dell’Italia?