Vicente del Bosque, come essere "vertical" restando un "hombre normal"

Francesco Caremani

L’hanno definito un hidalgo, ma non ne ha il fisico. Dopo l’1-1 all'esordio di Danzica, Del Bosque ha saputo leggere bene e meglio di Prandelli la sfida decisiva, vincendo un Europeo quasi sotto gamba, lasciandoci la cabala d’italiagermaniaquattroatre e l’illusione di potersela giocare, mettendo via il biscotto e servendoci la torta. Solo che il festeggiato era lui.

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    L’hanno definito un hidalgo, ma non ne ha il fisico. E' quello che ha pensato anche Florentino Perez quando nel 2003, dopo due Champions League vinte, decise di cacciare Vicente Del Bosque per ingaggiare il portoghese Carlos Queiroz (vice di Ferguson al Manchester United).

    I Galacticos si stavano lanciando verso il futuro, comprando una stella a stagione, da Luis Figo a Zinedine Zidane, e per essere belli dentro decisero che dovevano essere anche belli fuori. Leggenda o meno che sia, al Real mandarono via Del Bosque dopo due campionati, due Champions League, un’Intercontinentale, una Supercoppa europea e una spagnola: poco mediatico, per niente à la page, nemmeno vintage.
    La finale vinta contro l’Italia ricorda un po’ la facilità con cui conquistò la prima Champions, contro il Valencia, 3-0 senza storia. Dopo aver eliminato Manchester United e Bayern Monaco, le finaliste dell’anno prima. Aveva Raul, aveva Redondo e McManaman, aveva Helguera, Karanka e Ivan Campo davanti al giovanissimo Casillas. Dodici anni fa.

    Castigliano di Salamanca, appena maggiorenne era già del Real Madrid, che sarebbe diventata la sua casa per dieci stagioni, 312 partite, 14 gol, 5 campionati e 4 coppe di Spagna. Ne ha allenato le giovanili, la squadra B, è subentrato due volte quando le Merengues erano in difficoltà e si è meritato quella panchina più di chiunque altro, onorandola con la coppa dalle grandi orecchie. Rivinta nel 2002 grazie anche al talento di Zidane e, soprattutto, agli equilibri tattici che Claude Makélélé sapeva dare in mezzo al campo (anche lui lasciato andare con troppa superficialità, poi rimpianto, sportivamente ed economicamente).

    Vicente lasciava che i risultati e i suoi giocatori parlassero per sé, per quel lavoro oscuro, per quella preparazione tattica che gli ha permesso di centrare le finali più importanti. Prima di ieri sera, come Lippi, aveva vinto il Mondiale e la Champions. Adesso sul gradino più alto è rimosato solo lui. Mourinho potrà anche vincere la Decima, ma non sarà mai madridista quanto Del Bosque; potrà anche essere il primo allenatore a vincerne 3 con tre club diversi, ma il record di Vicente vale di più.

    Quanto il primo mette sé stesso davanti a tutto, il secondo ha anteposto il Real Madrid a tutto il resto, pagando come quando in amore si è generosi persi di fronte a un altro che invece calcola. Ma Del Bosque non se l’è presa, ha continuato per la propria strada con quell’aria da oste che su due piedi non ti dà tanta fiducia finché non scopri che serve pietanze eccezionali a costi competitivi. Avrà trovato il lavoro fatto da Luis Aragones (altro tecnico poco mediatico), avrà  pure ereditato un blocco che gioca a memoria (quello del Barcellona), ma ha saputo realizzare entrambi aggiudicandosi un triiplete che non riuscì nemmeno alla Germania di Beckenbauer. Un po’ Enzo Bearzot, un po’ Helmut Schön, ma in fondo né l’uno né l’altro. Per i suoi modi verrebbe da dire Nereo Rocco, uno che di finali e di coppe se ne intendeva (citofonare Ajax 4-1), ma così com’è resta l’allenatore spagnolo più forte (vincente?) di sempre, oscurando pure Pep Guardiola.

    Il suo segreto? L’umiltà, mettere sempre la squadra davanti al proprio ego, le parole giuste al momento giusto per ogni giocatore (soprattutto per chi resta fuori), lo spogliatoio ben sigillato, rispetto per lo zoccolo duro della Nazionale, nessun diktat o lista di cose da non fare. Roba semplice, forse banale, ma vincente. E mettiamoci anche po’ di sagacia. Ti fa addirittura credere di essere stato in partita fino all’infortunio di Thiago Motta, ma dalla panchina faceva segno di non lasciarci alcuna speranza, di continuare a pressarci fino al 4-0 finale, dandoci una lezione coi fatti e lasciando le carezze solo per quando eravamo in lacrime.

    Dopo l’1-1 all'esordio di Danzica, Del Bosque ha saputo leggere bene e meglio di Prandelli la sfida decisiva, vincendo un Europeo quasi sotto gamba, lasciandoci la cabala d’italiagermaniaquattroatre e l’illusione di potersela giocare, mettendo via il biscotto e servendoci la torta. Solo che il festeggiato era lui.

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