Mai come mia madre

Annalena Benini

Amore, non voglio che diventi grande”. “Mammina, non voglio che diventi vecchia”. Dentro uno scambio pedagogicamente sbagliato, provocato dall’improvvisa percezione di una bambina cresciuta che pretende di tagliare i capelli perché non sopporta gli elastici, gironzola in bicicletta senza rotelle e quasi non cerca più la mano per addormentarsi, c’è il germoglio ancora innocente del conflitto che sarà.

    Amore, non voglio che diventi grande”. “Mammina, non voglio che diventi vecchia”. Dentro uno scambio pedagogicamente sbagliato, provocato dall’improvvisa percezione di una bambina cresciuta che pretende di tagliare i capelli perché non sopporta gli elastici, gironzola in bicicletta senza rotelle e quasi non cerca più la mano per addormentarsi, c’è il germoglio ancora innocente del conflitto che sarà. Dei silenzi e dei musi lunghi, delle urla e dei divieti, e di quel: mai come mia madre, che a un certo punto esplode, e grida la rabbia del non riconoscersi più, anzi la convinzione che quel che pensa lei (lei madre, lei figlia) sia completamente sbagliato, capovolto, inutile. Dura una sera, un giorno, un minuto, qualche mese o interi anni, ma raramente si diventa grandi senza quel conflitto, anche inespresso, senza avere mai desiderato di cambiare la madre, la nostra origine du monde, o di diventare, per contrarietà, l’opposto della vita sognata per noi. Si fa di tutto per scappare via, lontano, per essere qualcos’altro e mantenere fede alla solenne promessa adolescenziale: mai come mia madre, poi arriva un giorno in cui ci si ferma incredule ad ascoltare qualcuno che ci sta dicendo: sembri tua madre. Gli autori di favole conoscevano il problema (anche se erano soprattutto uomini alle prese con Edipo), così l’hanno eliminato alla radice: le principesse inseguono il loro destino (di solito un principe un po’ tonto) senza condizionamenti, senza porte sbattute e grandi “ti odio”, semplicemente perché non hanno una madre. Le madri muoiono di parto, o nella primissima infanzia, le principesse vengono dotate di matrigne da combattere, perché è troppo scandaloso uccidere una madre per vivere, quindi la si sostituisce con una strega cattiva, un ostacolo alla felicità più culturalmente corretto. Cenerentola, Biancaneve, la Sirenetta, e Belle di “La Bella e la Bestia” sono orfane, la Bella Addormentata viene cresciuta dalle fate nel bosco, Rapunzel viene rapita da piccolissima da Madre Gothel (la più ambigua delle non madri, la strega più spaventosa, perché si rischia di cadere nel suo tranello e scambiare il controllo per amore, e forse nemmeno lei sa dov’è il limite), che finge di essere la vera mamma per tenere Rapunzel rinchiusa nella torre e succhiarle la giovinezza. Anche il pesce Nemo, che è maschio, ha solo un padre apprensivo e un po’ troppo “mammo” con cui litigare, ma sempre da maschio, con scontro diretto, non ci sono non detti, non ci sono complicazioni, rivalità, e l’unica femmina del film, Dori, è accettabile in quanto completamente svampita e priva di senso materno. Tutto l’imponente, inesorabile armamentario di giocattoli, bambole, peluche, libri che ci affanniamo a regalare alle nostre bambine, che siamo costretti a collezionare anno dopo anno, cartone dopo cartone, è un universo di orfane trionfanti, con qualche bella principessa con le stelline negli occhi che si ricongiunge alla madre solo dopo la maggiore età, un abbraccio e via, perché c’è già un matrimonio da celebrare, e alla mamma (ancora bellissima, ma muta, lontana) non resta che piangere di gioia e tornare al suo ricamo, felice di avere evitato anni di litigi.

    Adesso, invece, il bisogno di un’eroina femmina un po’ più credibile, complessa, moderna ma non troppo antipatica ha creato Merida, la principessa scozzese con i capelli rossi e ricci (molto somigliante, nella chioma, a Rebekah Brooks, ex capo di News International, pupilla di Rupert Murdoch, incriminata, arrestata all’alba, passata in un lampo dal club di quelle che ce l’hanno fatta al recinto delle cattive da non imitare): Merida è molto più interessata a fare a pugni con la madre, la regina Elinor, che a innamorarsi di un capo clan qualsiasi con i denti storti, decisamente meno bravo di lei a centrare bersagli con le frecce (“Sono Merida, e gareggerò per ottenere la mia mano”, è il nuovo slogan dell’indipendenza, seguito dal gesto inequivocabile di strapparsi di dosso quel vestito troppo stretto, naturalmente imposto dalla madre, che le impedisce di tendere bene le braccia e scoccare le sue frecce perfette). E’ “The Brave-Ribelle”, il nuovo film d’animazione della Disney-Pixar (uscito ieri in America, qui arriva a settembre, e oggi lo proiettano in anteprima al Teatro Greco di Taormina), studiato e lavorato per sei anni, molto simbolico, molto adatto a interpretazioni femministe perché per la prima volta non c’è uno straccio di principe a cui regalare i propri talenti, molto deciso a completare per sempre l’evoluzione delle principesse, ormai liberate dal tedio di dover ballare su scarpette di cristallo o dover prendere a morsi mele offerte da vecchie sconosciute chiaramente vestite da streghe (anche se le scarpine di plastica e gli abiti da principesse sono un affare serio, miliardi di dollari per un diadema giocattolo come quello di Aurora, file perpetue ai negozi Disney per comprare il vestito giallo di Belle). Scrivono che la Pixar sia un posto molto misogino, fatto in prevalenza da maschi che dicono parolacce, sognano un mondo a forma di Toy Story e sparano tutto il tempo con pistole giocattolo: la regista, Brenda Chapman, titolare del progetto principale,per metà scozzese e con figlia battagliera che le ha dato l’ispirazione per Merida, a un certo punto è stata sostituita alla guida del film da un uomo. Avevano paura che trasformasse una scelta già pericolosa come il ritorno al medioevo e alle favole, una “epic fantasy adventure” aiutata dai combattimenti, dalle frecce e da un grosso orso bruno (pare che i maschi abbiano più influenza sui genitori delle loro sorelle nel decidere quali film andare a vedere al cinema), in un saggio di Freud sulla relazione madre figlia, una cosa troppo psicologica e raffinata, così hanno tagliato la scena in cui Merida teenager e la regina Elinor litigano furiosamente, poi prendono una pausa per abbracciarsi e dirsi buongiorno, e ricominciano a rinfacciarsi di tutto.

    “Lei è mia madre, gestisce ogni singolo giorno della mia vita”: l’inizio è quasi una vera favola tradizionale, la famiglia che vive nel castello scozzese, il re e la regina e i loro figli, le cosce di cinghiale a cena, i racconti dell’orso gigantesco che ha staccato di netto un pezzo di gamba al padre. I riccioli rosso fuoco dei bambini e lo sguardo severo della madre (un po’ matrigna, sì, ma esiste una madre non matrigna dentro lo sguardo fiammeggiante di una teenager per cui tutto il resto del mondo è costituito da vecchi arcigni?). E poi quella primogenita ribelle, per niente principesca, per niente elegante (non ha gli occhioni flap flap delle altre principesse, non ha l’ovale delicato e ha grosse sopracciglia rosse, ma se le bambine faranno la fila al negozio Disney per un suo arco con le frecce e per una parrucca di riccioli significherà che Aurora, e tutto quel che rappresenta, ha i giorni contati). Merida è fiera di essere una principessa, non desidera un altro ruolo nel mondo, ma vuole viverlo a modo suo, non nel modo di sua madre, e nella presa in giro del re, che la imita con voce in falsetto, rivendica il suo anticonformismo: “Io non voglio sposarmi, voglio rimanere single e sciogliere la mia chioma al vento e attraversare la valle al galoppo scagliando frecce contro il sole che tramonta”.

    Ma c’è qualcosa di più, non è soltanto  una ragazzina più brava degli uomini con la spada, il cavallo, l’arco e le frecce, più coraggiosa e ardita (non sarebbe una novità), è come se Merida avesse l’intuizione profonda di un destino che la chiama altrove. Che non la vuole sposata a uno dei pretendenti goffi che si sfidano in una gara di frecce, ma nemmeno, forse, a un perfetto Braveheart tatuato, più in là. Un destino che non la vuole pettinata, liscia e regale come la madre, perfettamente a suo agio in quegli abiti soffocanti: la regina Elinor cerca invano di districare i vortici rossissimi in testa a Merida, combatte con ognuno di loro come se potesse, lisciandoli, riavere indietro la dolce bambina che correva ad abbracciarla dopo aver avuto il permesso di toccare l’arco del babbo, naturalmente non ci riesce: quei capelli, oggetto di lunghi studi al computer per renderli vivi e indipendenti, sono indomabili. Elinor tira troppo con la spazzola, crea altra tensione, si arrabbia e si chiede: “Che ne è stato della cara figliola che conoscevo un tempo?”. Non riescono a parlarsi, sono chiuse ognuna nella propria torre, e competono per quale sia il modello femminile che deve vincere dentro il castello e nel loro mondo. Le altre principesse sanno che vogliono innamorarsi, anche di un tanghero, non importa, Merida sa che deve far capire a sua madre chi è davvero e cosa vuole diventare. “Una principessa si alza presto, non si ingozza di cibo e non posa le armi sulla tavola”. La madre non fa che spiegarle come va il mondo, qual è il suo destino, e Merida non fa che rifiutarlo, imbrattarlo, cercare un canale di comunicazione che non trova. Lo trovammo, noi, con le nostre madri? Lo troviamo con le nostre figlie? In “Orgoglio e Pregiudizio” Elizabeth Bennet non è nemmeno in conflitto con sua madre, donna invadente e impresentabile, se ne vergogna e la tollera da lontano. Invece Merida cerca furiosamente, piena di sentimento, l’approvazione di sua madre, facendo di tutto per farsi disapprovare. E a un certo punto desidera, con troppa forza, di cambiarla completamente, di trasformarla in qualcos’altro (quasi tutte desiderano qualcos’altro: la figlia di Erica Jong desiderava una madre casalinga, che non parlasse di sesso davanti alle compagne di scuola e girasse in casa almeno un po’ vestita; la figlia di Alice Walker desiderava una madre che le dicesse: evviva, un nipotino, non: non ho tempo, c’è l’apartheid, non mi interessa; la figlia di Joan Crawford desiderava intensamente di venire adottata da qualcun altro; Irène

    Nemirovsky ha desiderato una madre affettuosa, magari brutta, un po’ più vecchia, disinteressata ai vestiti e agli amanti, per darle il bacio della buonanotte senza desiderare di ucciderla; Bridget Jones avrebbe voluto una madre che non le chiedesse ogni giorno: hai trovato marito? Jeanette Winterson, scrittrice inglese intensamente autobiografica, desiderava una madre gentile, che non aspettasse l’Apocalisse e che tifasse per la sua felicità, non per la purificazione dai peccati. E poche sere fa, per strada davanti a casa mia, una madre e una figlia adolescente gridavano e litigavano – non ho origliato, era una lite molto rumorosa – e il motivo apparentemente era una macedonia che la figlia non aveva voluto mangiare. Macedonia, macedonia, macedonia, ripetevano fra i singhiozzi. Quella macedonia per la madre era un gesto d’amore, distensivo, di protezione, per la figlia una forma autoritaria di controllo che la costringeva a restare seduta a tavola dentro la prigione, mentre fuori il mondo fuori l’aspettava, e il romanzo della loro lite poteva durare all’infinito, con silenzi e rimproveri e lacrime: tu non mi vuoi capire, io capisco anche troppo, tu non vuoi che io sia felice, urli sempre, tu devi dirmi cosa stai combinando; e macedonia, macedonia, macedonia; a un certo punto un vicino ha urlato: “E lasciala vivere ’sta ragazza” e lo spettacolo dell’incomunicabilità è finito di colpo).
    Merida desidera un’altra madre, ed ecco che la madre viene trasformata davvero, nell’essere più pericoloso per il regno, l’orso che il padre insegue da anni, il simbolo dell’odio. E’ un incantesimo, una magia, una maledizione, o è il suo pensiero di amore e odio insieme che ha prodotto un tale mostro, un tale disastro? Adesso i ruoli sono invertiti, si ricomincia dal basso, Merida deve proteggere quella madre-orso con cui non può più nemmeno tentare di parlare, deve aiutarla a procurarsi il cibo, deve difenderla da quelli che vogliono ucciderla, tagliarle la testa e appenderla nel salone del castello. Devono, insieme, trovare la strada per combattere il maleficio, per annullarlo. E’ un viaggio profondo, dentro sentimenti che nemmeno si credeva di possedere, per ritrovare le parole, un filo, un modo anche strambo per restare unite. Deve lei stessa, la principessa ribelle (perché la ribellione in sé non basta a fare di una ragazzina un personaggio da romanzo) trovare in sé l’istinto materno, la maturità, il coraggio, l’origine del loro amore. Come quando si viene al mondo, e non c’è niente da dire, nessuna complicazione, solo madre e figlia unite in un modo carnale che non ha nemmeno bisogno di incantesimi e spiritelli del bosco e atmosfere alla Miyazaki, perché ha già la magia dentro.

    La preghiera che Tina Fey, attrice comica americana, rivolge a Dio per sua figlia, contiene questa intuizione. Dopo aver pregato di proteggere la sua bambina “quando attraversa la strada, sale su barche, nuota nell’oceano, nuota in piscina, cammina vicino a piscine, sta in piedi vicino alla metropolitana, scende dalle barche, va nei bagni dei centri commerciali, sale e scende le scale mobili, guida per stradine di campagna mentre parla, si appoggia a grandi finestre, cammina nei parcheggi, va su ruote panoramiche, montagne russe, qualunque cosa con la scritta: ‘Inferno’, e sta in piedi su qualsiasi tipo di balcone, ovunque, sempre, a qualsiasi età” (aggiungo: mentre va in bici senza rotelle ovunque, sempre, a qualsiasi età, e quando un ragazzo con i capelli lunghi e una maglietta con la scritta “Aerosmith” la inviterà a fare un giro in moto), dopo aver implorato il Signore di darle la forza, quando la figlia le dirà: “Stronza”, di infilarla in un taxi davanti ai suoi amici, prega di poterla guardare di nascosto, un giorno, quando avrà un bambino, e se ne starà sdraiata su una coperta, alle quattro e cinquanta del mattino, esausta e completamente innamorata della piccola creatura che le sta addosso sporca di tutto. Tina Fey chiede di poterle spiare i pensieri: “Mia madre ha fatto questo una volta per me”, e ascoltare quello slancio tardivo di riconoscenza, quell’appunto mentale: devo telefonare a mia madre. La figlia se ne dimenticherà un attimo dopo (“ma io lo saprò, perché avrò sbirciato”). La principessa Merida avrà quel momento, primitivo, innocente, libero dai condizionamenti e dai reciproci capricci esistenziali. E capirà che nessun altro al mondo ha il diritto di esasperare lei o sua madre, di infilarsi in un rapporto esclusivo di amorosa battaglia. Certamente non un uomo.

    • Annalena Benini
    • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.