La Repubblica degli eschimesi

Paolo Nori

E’ cominciata ieri, giovedì, a Bologna, la festa del quotidiano la Repubblica, festa intitolata “La repubblica delle idee - Scrivere il futuro”, che il Foglio mi ha chiesto di seguire con particolare attenzione alla lingua, che si usa dentro (e intorno) al quotidiano la Repubblica. Siccome però il Foglio di oggi (venerdì) è stato chiuso in redazione alle 21 di ieri (giovedì), non posso scrivere delle cose che ci sono state ieri.

    E’ cominciata ieri, giovedì, a Bologna, la festa del quotidiano la Repubblica, festa intitolata “La repubblica delle idee - Scrivere il futuro”, che il Foglio mi ha chiesto di seguire con particolare attenzione alla lingua, che si usa dentro (e intorno) al quotidiano la Repubblica.
    Siccome però il Foglio di oggi (venerdì) è stato chiuso in redazione alle 21 di ieri (giovedì), non posso scrivere delle cose che ci sono state ieri (in particolare della conferenza di Baricco, “Ultime indiscrezioni sui barbari”, che è cominciata appunto alle 21); ne scriverò magari domani, sabato, oggi parlerò di un’altra cosa che si è saputa l’altro ieri (mercoledì).
    Mi permetto, per cominciare, una digressione, sulla lingua, che vale come discorso introduttivo a tutti questi interventi da Bologna (ce ne dovrebbero essere altri due o tre).

    Allora io, tra le cose che so, sulla lingua, o che credo di sapere, c’è una cosa che ho visto formalizzata per la prima volta in un saggio di Viktor Sklovskij, cioè il fatto che la lingua si frusta, per così dire; che l’uso, con l’andar del tempo l’anestetizza, la rende innocua; che, con l’andar del tempo, i procedimenti linguistici si automatizzano e le parole non le sentiamo più, esattamente come non sentiamo più il rumore dei treni dopo pochi giorni che abitiamo vicino a una linea ferroviaria, o come non vediamo più il paesaggio che si vede fuori dalla nostra finestra, lo stesso paesaggio che ci aveva magari tanto colpito la prima volta che l’avevamo visto e che magari era stato il motivo per cui avevamo deciso di venire ad abitare dove abitiamo. Che l’oggetto di cui parliamo, se ne parliamo in un modo automatico, “passa vicino a noi come imballato, sappiamo che cosa è, il posto che occupa, ma ne vediamo solo la superficie”, scrive Sklovskij, e scrive che per ridare corpo agli oggetti, “per sentire gli oggetti, per far sì che la pietra sia pietra, esiste ciò che si chiama arte”, e allo stesso modo, mi sembra, il grande poeta russo Osip Mandelstam scrive, nel suo “Discorso su Dante”, che “dire ‘sole’ significa compiere un lunghissimo viaggio, al quale siamo però a tal punto abituati che viaggiamo dormendo. La poesia si distingue dal linguaggio automatico – scrive Mandelstam – appunto perché a metà della parola ci scuote e ci sveglia. La parola ci pare allora molto più lunga di quanto credessimo, sicché ci rammentiamo che parlare significa essere sempre in cammino”.

    Ecco: di questa cosa, del fatto che la lingua si frusta, per così dire, uno se ne può accorgere anche senza leggere Sklovskij e  Mandelstam; io mi ricordo perfettamente la prima volta che mi hanno detto che le impronte digitali erano diverse in ogni persona, e mi ricordo lo stupore e la meraviglia che ho provato, allora; e lo stesso stupore e la stessa meraviglia li ho provati quando ho letto, una ventina di anni fa, dentro un libro di Fritjof Capra, che, in cinese, “crisi” significa anche “opportunità”, e uno stupore e una meraviglia simili li ho provati quando ho sentito dire, per la prima volta, che gli eschimesi hanno quaranta modi diversi di dire “bianco”, e uno stupore e una meraviglia dello stesso genere li ho provati quando ho capito, traducendo, che i russi hanno quaranta verbi diversi per dire “ubriacarsi”, e una cosa del genere l’ho provata l’altro giorno leggendo, nel libro di Elif Batuman “I posseduti”, del fatto che il poeta uzbeco Nava’i dimostra “matematicamente” la superiorità dell’uzbeco antico sul persiano quando scrive che l’uzbeco “era una lingua talmente ricca che aveva termini per indicare settanta tipi diversi di anatre, mentre il persiano aveva solo anatra”.

    E se queste ultime due cose, i settanta diversi tipi di anatre uzbeche e le quaranta diverse ubriacature russe, non sono ancora cose fruste, le altre, secondo me, sì, sono entrate a fare parte di un modo automatico, di usare la lingua, per cui tutte le volte che si sente qualcuno che dice, col tono di aver fatto chissà che scoperta, che gli echimesi hanno quaranta modi diversi di dire bianco, ci viene da pensare: “Che due maroni, lo sappiamo che gli eschimesi hanno quaranta modi diversi di dire bianco, credi di avere detto una cosa nuova?”. O quando sentiamo dire che crisi, in cinese, vuol dire anche opportunità, ci vien da pensare: “Che due maroni, lo sappiamo che crisi in cinese vuol dire anche opportunità, credi d’aver detto una cosa nuova?”. Fine della digressione.

    L’altroieri (mercoledì), con un videomessaggio sul sito del quotidiano la Repubblica, il direttore Ezio Mauro ha dato la notizia che alla festa di Repubblica parteciperà anche lo scrittore Roberto Saviano, notizia che era stata tenuta nascosta fino a quel momento per ovvi motivi di sicurezza. Saviano racconterà, sabato sera, a Bologna, la crisi economica. “L’intervento dello scrittore, – si legge sulle pagine on line del quotidiano la Repubblica – sarà trasmesso su tutti i maxischermi della città e proposto in diretta televisiva da Sky”. A questo proposito Saviano, stando al quotidiano on line la Repubblica, ha dichiarato: “So che è difficile divulgare l’economia. Si rischia di banalizzare o al contrario di addentrarsi in meccanismi tecnici complessi. Ma proverò a raccontare il ‘Romanzo della crisi’. Io – ha continuato Saviano – vedo la crisi anche come una opportunità”. “Certo – ha poi detto Saviano – le istituzioni dovrebbero aiutare i giovani a prendere il volo. E invece quelli della mia generazione sentono le istituzioni lontane. Con l’unica eccezione di magistratura e forze dell’ordine, che in molte zone d’Italia restano l’unico presidio dello stato sul territorio, che dicono ai giovani: non siete soli contro le mafie”. Richiesto del motivo per cui ha deciso di partecipare alla festa del quotidiano la Repubblica, Saviano sembra abbia detto che l’incontro con il pubblico di Bologna sarà una rara eccezione, nella sua vita fatta di scorte e auto blindate. “Conoscere i miei lettori, stringere le loro mani – ha spiegato – sono la vita stessa. Ma a Bologna – ha concluso Saviano – sarà diverso: sarà un’occasione in cui si ritroveranno tutte quelle persone che da giornalisti o da lettori hanno contribuito a costruire un certo modo di raccontare il mondo, quello di Repubblica”.

    Che è un modo di raccontare, se ho capito bene, in cui le crisi sono anche opportunità, in cui le istituzioni dovrebbero aiutare i giovani a prendere il volo, e in cui i giovani sentono, uniche istituzioni vicine a loro, la magistratura e le forze dell’ordine.
    Un mondo, mi viene da dire, che non conosco, sono molto curioso, anche se, nello stesso tempo, mi sembra di sentire una musica, in sottofondo, che mi fa pensare: “Che due maroni, credi di aver detto qualcosa di nuovo?”.
    Ma forse mi sbaglio.