L'eterna estate incantata di Bradbury, che amava i libri e i marziani

Stefano Priarone

I buoni scrittori toccano spesso la vita. I mediocri la sfiorano con mano sfuggevole. I cattivi scrittori la esasperano e poi la abbandonano”. E’ una frase di “Fahrenheit 451”, il libro più famoso di Ray Bradbury, lo scrittore morto a Los Angeles a 91 anni. Lui la vita l’ha toccata spesso, specialmente quando scriveva dei suoi temi preferiti.

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    I buoni scrittori toccano spesso la vita. I mediocri la sfiorano con mano sfuggevole. I cattivi scrittori la esasperano e poi la abbandonano”. E’ una frase di “Fahrenheit 451”, il libro più famoso di Ray Bradbury, lo scrittore morto ieri a Los Angeles a 91 anni. Lui la vita l’ha toccata spesso, specialmente quando scriveva dei suoi temi preferiti: i ragazzi nella stagione di passaggio fra l’infanzia e l’adolescenza, l’America rurale di un passato idealizzato, l’irruzione del fantastico nel mondo moderno. Nato il 22 agosto 1920 a Waukegan, Illinois, città che avrebbe citato in romanzi autobiografici come “L’estate incantata del 1957”, trascorse l’infanzia leggendo libri e fumetti: “Mi hanno allevato le biblioteche, non credo nella cultura universitaria”, avrebbe rivendicato. E si sarebbe dichiarato perfetto “autore ibrido”, innamorato allo stesso modo dei libri, del cinema, del teatro.

    Dagli anni Quaranta comincia a pubblicare racconti di fantascienza, fantasy, polizieschi, in varie riviste dell’epoca, e alla fine del decennio è già considerato fra i migliori autori di short stories della sua epoca. Nel 1950 raggiunge il vero successo con i racconti di “Cronache marziane”. Immagina la colonizzazione e il successivo abbandono (sulla Terra è scoppiata una guerra nucleare) del pianeta Marte da parte degli umani. Sono storie poetiche e malinconiche – i marziani appaiono come una civiltà morente che i terrestri non sanno comprendere –  e le sue astronavi sembrano volare grazie a un atto di fede. A Ray Bradbury, del resto, manca la visione ottimistica del progresso che fu di altri autori di fantascienza classica suoi contemporanei, come Isaac Asimov. Più propriamente fantascientifico è invece il celeberrimo “Fahreneit 451”, uscito nel 1953 e reso universalmente noto anche grazie al film che François Truffaut ne trasse nel 1966, con la sua società distopica in cui leggere i libri è reato. Un classico della letteratura degno di stare a fianco di “1984” di George Orwell, e un appassionato atto d’amore per i libri che salvano la vita. Bradbury si infastidì molto quando, nel 2004, Michael Moore si ispirò al titolo del suo romanzo per il documentario anti Bush “Fahrenheit 9/11”, e fino all’ultimo cercò di farglielo cambiare, senza successo. Bradbury scrisse per il cinema (la sceneggiatura del “Moby Dick” diretto nel 1956 da John Huston, per esempio) e per la televisione, e gli dobbiamo innumerevoli racconti diventati fumetti e serie televisive leggendarie, come “Ai confini della realtà” e “Alfred Hitchcock presenta” (la serie tv “The Ray Bradbury Theater”, dal 1985 al 1992, è interamente basata su adattamenti dei suoi racconti e presentata da lui).

    A dovere molto a Bradbury è anche Stephen King, che nel saggio “Dance Macabre” analizza il romanzo “Il popolo dell’autunno” nel quale due tredicenni incontrano un arcano circo il cui capo è il misterioso Mister Dark (il libro ha ispirato i romanzi di King “Cose preziose” e “Pet Sematary”). A torto Bradbury è ritenuto un autore di fantascienza, perché in realtà ne ha scritta pochissima: la maggior parte dei suoi libri rientra semmai in quella “zona del crepuscolo” (per citare il titolo originale, “The Twilight Zone”, della serie “Ai confini della realtà”) fra l’horror e la fantasy, in cui i mostri possono sì dimorare sotto il letto, ma nella quale si possono sconfiggere se si è coraggiosi, onesti e fedeli ai vecchi valori americani.

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