Si scrive bene nelle proprie braghe

Paolo Nori

Da qualche settimana è uscito uno strano libro, che ho scritto, in parte, anch’io. Il libro, che si intitola “Presente”, e che è stato immaginato e curato da Giorgio Vasta,  è il diario dei dodici mesi dell’anno scorso raccontati, a turno, da Andrea Bajani, Michela Murgia, da me e dallo stesso Vasta. E’ un libro che non avrei mai pensato di recensire e che, a pensarci, non recensirò, ma del quale mi trovo a parlare su sollecitazione del Foglio per commentare una recensione di Daniele Giglioli uscita sul Corriere della Sera del trenta di maggio.

    Da qualche settimana è uscito uno strano libro, che ho scritto, in parte, anch’io. Il libro, che si intitola “Presente”, e che è stato immaginato e curato da Giorgio Vasta,  è il diario dei dodici mesi dell’anno scorso raccontati, a turno, da Andrea Bajani, Michela Murgia, da me e dallo stesso Vasta. E’ un libro che non avrei mai pensato di recensire e che, a pensarci, non recensirò, ma del quale mi trovo a parlare su sollecitazione del Foglio per commentare una recensione di Daniele Giglioli uscita sul Corriere della Sera del trenta di maggio.

    Ha notato, Giglioli, che, nel nostro racconto del 2011,  prevalgono “situazioni e oggetti piccoli, minori, abitualmente fuori fuoco (bambini, gatti, giocattoli, oggetti inutili, piccoli librai, luoghi remoti; ansie, fragilità, silenzi, dubbi, interrogativi che non necessariamente richiedono risposta). Politici e scenari grossi –  continuava Giglioli – sono comprimari”, e si compiaceva che, se e quando compaiono, “non generano i soliti commenti da bar”. Giglioli condivide questa scelta, ma l’aggettivo che ha usato per definire i soggetti che descriviamo, minori, devo dire che a me sembra stranissimo.

    Non capisco il senso in cui i bambini, o i piccoli librai, sarebbero minori o fuori fuoco. Minori rispetto a cosa? mi viene da chiedermi. Fuori fuoco rispetto a cosa? Alle fotografie ufficiali? Ma cosa si può pensare di trovare, negli scritti di quattro persone la cui principale attività è scrivere dei romanzi?
    Ci sono dei libri, tra quelli che si studiano all’università, che se uno li prende in mano una volta non riesce poi a dimenticarseli e uno di questi libri, per me, è “Estetica e romanzo”, di Michail Bachtin, che è il libro dove ho letto, non ci avevo mai pensato, che il cinquanta per cento di quel che diciamo non è una cosa che diciamo, è una cosa che ripetiamo, e mi ricordo di avere pensato che era passato qualche decennio, da quando Bachtin aveva osservato quella cosa, e che ormai, per me perlomeno, quella percentuale era arrivata al novantotto per cento e che quando mi veniva un’idea mia, che avevo pensato io, era un giorno da segnare sul calendario, ma non era questo che volevo dire.
    Quello che volevo dire è che nel saggio iniziale di “Estetica e romanzo”, che si intitola “La parola nel romanzo”, Bachtin nota che ci sono opere letterarie che nascono per svolgere una funzione centripeta e altre che ne svolgono una centrifuga; secondo Bachtin la poesia aveva, nelle corti e tra i ceti dirigenti, una funzione linguistica unificante, e svolgeva sostanzialmente il ruolo centripeto, adempiendo al “compito della centralizzazione culturale, nazionale e politica del mondo ideologico-verbale”; il romanzo, al contrario, “nasceva nei ceti inferiori”, e svolgeva un compito sostanzialmente centrifugo. “Lì – scrive Bachtin –  non c’era alcun centro linguistico, si giocava con le lingue dei poeti, dei dotti, dei monaci, dei cavalieri eccetera, tutte le lingue erano maschere e non c’era un volto linguistico autentico e indiscutibile”.
    Quindi in un romanzo, secondo Bachtin, o, meglio, secondo il modo in cui io capisco Bachtin, le gerarchie linguistiche vengono riscritte, ridefinite; il romanzo è essenzialmente, secondo Bachtin, un’opera carnascialesca, e il carnevale, come si sa, è quel giorno dell’anno in cui il re chiede l’elemosina e il pezzente sale sul trono.

    Mi viene anche da pensare che i commenti da bar, che pure a me piacciono molto (ho l’impressione che uno dei segni del fatto che siamo, dal punto di vista della diffusione della tolleranza e della democrazia, su un piano inclinato, è la progressiva scomparsa dei bar e della clientela dei bar), hanno, rispetto ai commenti che si trovano dentro i romanzi, la caratteristica che difficilmente mettono in discussione la gerarchia comunemente accettata: “Tanto decidono poi sempre loro”, si dice nei bar, riferendosi ai potenti, mentre nei romanzi loro non decidono niente (oppure tutto, ma proprio tutto tutto tutto).
    C’è uno scrittore ceco contemporaneo, Patrik Ourednik, che ha pubblicato nel 2001 un libro intitolato “Europeana” che è, come dice il sottotitolo, una “breve storia del Ventesimo secolo”.
    In questo piccolo capolavoro, che è stato nella Repubblica ceca il libro dell’anno e che è stato tradotto in tutti i paesi occidentali (in italia per la benemerita :duepunti di Palermo) un anonimo compilatore di cronache riscrive la storia del Ventesimo secolo mettendo sullo stesso piano la rivoluzione russa e la scoperta della gomma da masticare, la nascita della Barbie e quella della psicoanalisi: è un libro che sembra scritto da uno storico con l’esaurimento nervoso e che genera, in chi nel Ventesimo secolo ci è nato e ci ha vissuto, un senso di compassione e l’impressione dell’inutilità, benedetta e commovente, della maggior parte delle nostre azioni.

    In un recente saggio che si intitola “La verità dell’epoca?”, Ourednik scrive che chi si accosta alla letteratura intendendo rispettare “la pluralità delle verità” (vale a dire la plurivocità bachtiniana), si trova di fronte “al problema della gerarchia delle cose, o più esattamente del valore dato a una verità a dispetto di un’altra”.
    Il modello indicato da Ourednik (che riprende qui uno studio di Roland Barthes), non è la struttura, a trama, del romanzo tradizionale, ma l’album di fotografie.
    “Le fotografie, – scrive Ourednik – salvaguardano un istante, una miniatura della vita, senza che questa miniatura della vita sia considerata superiore o inferiore a un’altra”.
    Ecco. Se si legge “Presente” come libro di fotografie, ci si aspetta forse di trovare proprio quello che ci ha trovato Giglioli, “bambini, gatti, giocattoli, oggetti inutili, piccoli librai, luoghi remoti; ansie, fragilità, silenzi, dubbi, interrogativi”.

    Ma come ho detto, anche Giglioli apprezza il ribaltamento gerarchico che si trova in “Presente”; e apprezza anche l’altra cosa che nota, cioè il fatto che “tutto”, in “Presente”, sia “onesto e decente”, anche se la cosa genera, in lui, “insoddisfazione”.
    Noi quattro, Andrea Bajani, Michela Murgia, io e Giorgio Vasta, siamo sembrati, a Giglioli, troppo educati: “Ma davvero i nostri autori hanno un’intimità così beneducata? Possibile che non abbiano rancori, invidie, malevolenze? Possibile che non odino nessuno? Che non tradiscano, non mentano, non sporchino?”.
    Insoma, Giglioli parla di “Presente” come se il soggetto del libro, il soggetto delle fotografie, fossimo noi, e ne parla un po’ come se ci fossimo presentati con una di quelle rare fotografie in cui siamo venuti bene, a Parma dicono “la fotografia per la lapide”.
    Ecco.
    Secondo me, magari mi sbaglio, ma ho l’impressione che noi (intesi come Andrea Bajani, Michela Murgia, Paolo Nori e Giorgio Vasta) non c’entriamo niente; noi, secondo me, in “Presente”, siamo solo gli occhi, i fotografi, e io, come occhio, come fotografo, devo dire che, tra le altre cose che ho fotografato, in “Presente”, ho fotografato molti libri che sono usciti (o che ho letto, o riletto) nel 2011, dal momento che l’impressione che un’epoca, un periodo storico, non siano resi tanto dai loro governanti quanto dai loro libri; e, tra gli altri libri che ho fotografato (e non è quello che è venuto meglio) c’è anche l’ultimo libro di Daniele Giglioli, che si intitola “Senza trauma”, e che è uscito per la bella casa editrice di Macerata Quodlibet (che è una cosa che Giglioli, molto educatamente, non ha rilevato ma che io mi sentirei troppo educato a non dirla).

    Allora, come si sa, è difficilissimo parlare di un libro al quale si è, in qualche modo, contribuito, e io credo tra l’altro che dal suo punto di vista abbia sicuramente ragione Giglioli quando vede, in “Presente”, un autoritratto coi vestiti della festa, un autoritratto dal quale avremmo escluso “i compromessi al ribasso, le connivenze, le sciatterie umane, i piccoli egoismi, le mancate resistenze”.
    Io, se devo dire la mia, non ho l’impressione che il libro sia questo (non mi sembra nemmeno, come ho detto, che “Presente” sia un autoritratto), ma se fosse questo, sarebbe, dal mio punto di vista, un fallimento, perché con il vestito della festa si possono fare, secondo me, tante cose, ma non si possono scrivere dei libri.
    Forse questa è una cosa che detta così non si capisce molto bene, e, per spiegarmi bene, approfitto della possibilità di spiegarmi bene che mi offre il Foglio con i suoi fantastici quindicimila caratteri (non ne abuserò, mi fermerò a dodici) e mi permetto di copiare qua sotto un breve ragionamento che ho fatto dentro un seminario di scrittura che si chiama “Scuola elementare di scrittura emiliana” e che ho tenuto a Bologna nel novembre del 2009, e che è stato pubblicato nell’ultimo libro che mi han pubblicato prima di “Presente”, “La meravigliosa utilità del filo a piombo”, che è uscito nel 2011 per Marcos y Marcos.
    Il testo si intitola “Gli specchi”, e fa così:

    “Gli specchi”

    Ecco, a me è successa una cosa che secondo me un po’ c’entra, con il discorso. Cioè io, nel 2009, dopo sei o sette anni che non ci andavo, sono andato alla fiera del libro a Torino. Il giorno prima di andare a Torino sono andato a Parma, con mia figlia, abbiamo dormito a Parma, da mio fratello, e poi son tornato a Bologna, ho lasciato mia figlia a sua mamma, in stazione e, senza passare da casa (abito lontano dalla stazione), ho preso un treno che mi ha portato a Torino. Era tutto calcolato andava bene. Solo che, a Parma, a casa di mio fratello, mi sono macchiato i pantaloni. Allora non potevo andare a Torino star via due giorni coi pantaloni macchiati, e mio fratello mi ha prestato un paio dei suoi. Solo che erano dei pantaloni con la vita bassa, che io non mi ero mai messo, e, il mattino dopo, nel tragitto che, in autobus, porta da casa di mio fratello alla stazione di Parma, mi sono accorto che mi sembrava che mi cascassero continuamente, mi sono trovato a tirarmeli su una ventina di volte, e ho pensato che non potevo star via di casa due giorni con quella sensazione lì che ti caschino le braghe che per me è proprio una sensazione sgradevolissima. Allora quando siamo arrivati nel piazzale della stazione, mi sono accorto che era giorno di mercato, e con mia figlia siamo andati in una bancarella di cinesi ho comprato un paio di braghe cinesi. Cinque euro. Un affare. Siamo andati nel bagno della stazione, mi sono cambiato le braghe, con mia figlia che mi guardava. Siamo usciti, era tutto a posto, tranne che, d’un tratto, mi è venuto in mente che avevo lasciato lo zaino sull’autobus. Noo, ho detto a mia figlia, ho lasciato lo zaino sull’autobus. Lei mi ha guardato mi ha detto Noo. Mia figlia ha cinque anni, allora ne aveva quattro. Mi ricorderò sempre il modo in cui mi ha detto Noo. Non so perché, è stata una cosa memorabile. Fatto sta che poi mi sono tastato le spalle, lo zaino ce l’avevo sulle spalle. Allora niente. Eravamo così contenti. Dopo è andato tutto come previsto, sono andato a Bologna, ho lasciato mia figlia a sua mamma, ho preso il treno, sono andato a Torino, son stato a Torino e son venuto indietro. Solo che, quelle braghe cinesi lì, che mi era sembrato che mi avessero salvato, e in un certo senso mi avevan salvato davvero, devo dire che mi sentivo a disagio, con quelle braghe lì. Con le tasche sui fianchi, e un elastico in vita e dei lacci, sia in alto che in basso, per stringerle. Ma che braghe ho? mi chiedevo continuamente. Tutti gli specchi e le superfici riflettenti eran l’occasione per veder come stavo, non ero nelle mie braghe, e continuamente pensavo a come sarebbe stato bello tornare a casa e rimettermi nelle mie braghe.

    Ecco io, di solito, quando vado in giro, prendo con me dei taccuini, per scriverci sopra le cose che vedo. E uno ce l’avevo anche lì a Torino, e pensavo che mi avrebbero colpito un mucchio di cose, eran degli anni che non andavo a Torino, alla fiera del libro, ero curioso. Ecco, quando son tornato a casa, mi sono accorto che sul mio taccuino non avevo preso neanche un appunto. Ero così concentrato sulle mie braghe, e sull’effetto che facevo, che l’effetto che il mondo faceva a me non aveva quasi importanza. Ecco. Io ho l’impressione che, per scrivere, sia abbastanza importante trovar delle braghe.