Dentro il casco di un poliziotto ora sugli schermi torna lo sbirro cattivo

Stefano Di Michele

E’ tornato lo sbirro cattivo. Meno male, però. Dopo annate di Montalbano, ingordo e commosso, persino il giovane Montalbano, imberbe sbirro, imbranati Catarella, commissari con figlio gay ma tanto tanto comprensivi (dopo virile sberla iniziale, si capisce), il collega Manara macho ma tenerone, l’ispettore Coliandro imbranato ma coccolone, il “Distretto di polizia” che è come stare con gli amici per il cenone di Capodanno, “La squadra” napoletana un po’ più afflitta ma sempre disponibile – c’è da segnalare il ritorno sullo schermo allo sbirro stronzo, al celerino che mena, alla guardia che scansati.

    E’ tornato lo sbirro cattivo. Meno male, però. Dopo annate di Montalbano, ingordo e commosso, persino il giovane Montalbano, imberbe sbirro, imbranati Catarella, commissari con figlio gay ma tanto tanto comprensivi (dopo virile sberla iniziale, si capisce), il collega Manara macho ma tenerone, l’ispettore Coliandro imbranato ma coccolone, il “Distretto di polizia” che è come stare con gli amici per il cenone di Capodanno, “La squadra” napoletana un po’ più afflitta ma sempre disponibile – c’è da segnalare il ritorno sullo schermo allo sbirro stronzo, al celerino che mena, alla guardia che scansati. Caschi, manganelli, sangue, teste rotte, lacrimogeni, canti quasi tribali – i diretti interessati che mentre vanno allo scontro scandiscono “ceeeeelerino / figlio di puttaaaaana”, e Mazinga e Negro e Cobra (nomi che sembrano più da affiliati a una banda, che al reparto sbirri pesanti), tutti quarantenni, tutti con troppa violenza nelle mani (praticata) e negli occhi (vista oltre il casco), che danzano a ritmo rock, e quel festoso scontrarsi di corpi per il corridoio della caserma si muta man mano in inquietante preannuncio di tutto – piazza che protesta, teppismo di stadio, banditi in blocco total black. Così è “Acab”, il film di Stefano Sollima, di qualche mese fa. Così proprio dentro il casco di un poliziotto ci si sente – a veder scorrere quelle immagini, ad ascoltarli mentre parlano e ragionano di sé. “Ma in quei momenti hai il cuore che batte forte, l’adrenalina che sale a mille, la testa che ti rimbomba, che sembra scoppiare dentro il casco”. Colleghi, fratelli, persino e soprattutto complici. Quasi come sbirri tristi e sporchi di Joseph Wambaugh, come sbirri spaventosi e spaventati di James Ellroy – come se il passo diverso preso dal paese, le sue nuove mille paure, imponesse di colpo una diversa narrazione anche delle loro storie, delle loro emozioni. Quasi se “pietà l’è morta”.

    E dopo “Acab” – acronimo dello stupido All cops are bastard: gli sbirri sono tutti bastardi – adesso è il turno di un film destinato ad aprire discussioni ancora più feroci – anzi, il film è uscito venerdì (è andato così così), ma le polemiche erano scoppiate da giorni. Forse perché racconta un evento preciso, e lo racconta utilizzando gli atti dell’inchiesta – ogni parola è stata detta, ogni gesto è stato compiuto, ogni sopraffazione fatta. “Diaz” s’intitola il film, regia di Daniele Vicari. “Diaz” è un buco spaventoso, una mattanza insensata, qualcosa che in un paese democratico non può avvenire – e se avviene bisogna parlarne, renderne conto, ripristinare la legge offesa. Perché la legge – in quella notte di urla e teste e gambe spaccate, violenze ingiustificate e umiliazioni tremende, prove falsificate, c’è da dire: coglionamente falsificate, e vortice di bugie (“notte cilena” disse D’Alema, mica uno sfasciabancomat) – fu cancellata, e chi quella legge doveva difendere si fece invece branco e giustiziere e mazziere. E nessuno mai, con una divisa addosso, potrà rivendicare con orgoglio e onore quelle ore di follia. Ferocia contro ragazzi, anziani, donne. Indicibile oltraggio recato alle vittime razziate, ma pure insopportabile oltraggio recato alla stessa polizia di stato – che si ritrovò allora con il suo onore deturpato, alcuni uomini indicati come torturatori, una ferita che sanguina ancora – perché ferita non rimarginata: nel precipitarsi nel baratro di innumerevoli abusi, per demerito di chi dagli abusi dovrebbe difenderti. Polemiche su polemiche: Agnoletto, sul manifesto, è andato all’assalto del film. Sostiene che non si capiscono le responsabilità politiche, “film commerciale, costruito con astuzia”. Sul Fatto, il produttore Domenico Procacci, intervistato da Malcom Pagani, gli risponde per le rime: un articolo “scritto in totale malafede”. Il copione del film fu inviato anche al capo della polizia, Antonio Manganelli, “non l’ho mai saputo se l’abbia letto, ma mostrarglielo non tendeva certo a un’approvazione preventiva”.

    Gli stessi sindacati dei poliziotti, che molte buone battaglie hanno combattuto, sembrano affrontare quasi a mani nude la contesa di questi giorni, senza concedere e senza negare: sostengono che il film danneggi la polizia, “perché non serve più a nessuno girare il coltello nella piaga di fatti avvenuti undici anni fa” (fare allora film solo sull’ultimo semestre?), e s’invoca il contesto, quasi sciascianamente lo s’invoca, ma lo stesso (Franco Maccari, sindacato Coisp) riconosce che gli episodi “sono raccontati con dovizia di particolari e seguendo fedelmente le risultanze processuali”. Replica Daniele Vicari, il regista, che sia Agnoletto sia il Coisp “hanno un’idea propagandistica del cinema e dall’espressione artistica”. Il dirigente di un altro sindacato, il Sap, Stefano Paoloni, è andato a vedere “Diaz” per conto dell’Ansa. A visione conclusa ha spiegato che “ci voleva più equilibrio”, è un fim che “rischia di fomentare”, ma errori ci sono stati, “chi ha sbagliato è giusto che abbia il processo”, e comunque “credo che il film sia prematuro” – non troppi undici anni, dunque, per lui. Poi c’è Rita Parisi, del Siulp, e per lei il fim “può aiutare la categoria e la società civile a ragionare più serenamente”, così “la memoria ci aiuta a crescere, la rimozione a regredire”. Secondo Antonio Scurati, che lo ha scritto sul Corriere, addirittura “andare a vedere ‘Diaz’ è un dovere civile”.

    La polizia capì subito (anche se subito faticò ad ammetterlo) che si era spinta sull’orlo del baratro – o meglio: quell’orlo aveva valicato (così, fu istituita una scuola di formazione per l’ordine pubblico, perché mai più un branco abbia la tentazione dell’assalto come vendetta invece che come necessità, e anzi: se possibile mai si faccia branco chi deve difendere le ragioni dello stato). “Privatamente, i poliziotti che abbiamo incontrato prima e dopo – ha raccontato Procacci a Malcom Pagani – hanno parlato di errori commessi. Ma l’ammissione non è mai stata fatta pubblicamente e dirsi colpevoli senza chiedere scusa, è una relativizzazione un po’ deludente”. Tutto sull’onda di una cronaca lontana, ma feroce e presente. Non il poliziotto paranoico e assassino di Gian Maria Volontè in “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, non lo sbirro giustiziere di Maurizio Merli dei cupi anni Settanta. Stavolta, con la realtà i conti vanno chiusi – e un film, pure questo film, può aiutare. Come quando nei corsi per allievi agenti, intelligenti funzionari facevano studiare proprio il film con Volontè – per non sbagliare: la divisa non è salvacondotto per tutto – così meglio vedere “Diaz”. Perché è successo, e perché tutti – e i poliziotti ascoltati per primi – sperano e vogliono che non accada più. Guardare l’errore (e quanto di orrore contiene) fa male – e poi fa stare meglio.