Springsteen e il lamento rabbioso dell'America

Stefano Pistolini

Sono tempi che contano, per gli affari interni americani. Si fa il presidente, c’è la periodica chiamata a partecipare. Ci sono scettici ed entusiasti. Oratori, imbonitori e poeti. C’è il Super Tuesday, ci sono i duelli tv tra candidati con la sconfitta negli occhi e c’è il nuovo disco di Bruce Springsteen – che non è Celentano e perciò irrompe sì, ma lo fa sapendo di essere all’altezza. Nel pubblicare il 17esimo album, “Wrecking Ball”, il Boss modula la sua retorica iniettandovi significati sensibili e restando lontano dai luoghi comuni della sua epica.

    Sono tempi che contano, per gli affari interni americani. Si fa il presidente, c’è la periodica chiamata a partecipare. Ci sono scettici ed entusiasti. Oratori, imbonitori e poeti. C’è il Super Tuesday, ci sono i duelli tv tra candidati con la sconfitta negli occhi e c’è il nuovo disco di Bruce Springsteen – che non è Celentano e perciò irrompe sì, ma lo fa sapendo di essere all’altezza. Nel pubblicare il 17esimo album, “Wrecking Ball”, il Boss modula la sua retorica iniettandovi significati sensibili e restando lontano dai luoghi comuni della sua epica. “Wrecking Ball” è un lavoro solido, realizzato splendidamente, sciovinista quanto basta, ma ricco di pensiero e rappresentazione.

    Probabile che l’America confermi Barack Obama alla Casa Bianca, pur amandolo di meno (ma forse fidandosi di più). Nel suo disco il Boss amplifica il sentimento di disillusione che va sottobraccio a un’ammissione di necessità: in una situazione così, passi pure che le leve del comando restino in quelle mani, sebbene meno miracolistiche di quanto s’era sperato. Il voto col naso turato, che Springsteeen lascia intravedere, sottolinea come la pulizia delle sacre stanze sia stata più superficiale dell’annunciato, che i grandi poteri siano tutti ancora lì arroccati ad accumulare (“Va avanti la festa sulla collina del banchiere / e noi qua, legati, incatenati”, canta), mentre la coltre di protezione sulla povera gente è più sottile e lacera di quanto dovrebbe. Ma questo non è un album di delusione. E’ un lamento che non accetta d’essere mugugno e pretende d’assumere il lirismo necessario al momento storico, quando la sensazione del “tempo perduto” appartiene alle elucubrazioni di qualsiasi americano lungo il commuting tra casa e ufficio.

    Il megafono di Springsteen, in questo suo contributo a disegnare l’aria dei tempi, è prima di tutto letterario. La finalità è sociale, ben prima che politica. Sono le donne, gli uomini e la loro polvere, a muovere le sue emozioni e la penna, non certo le dottrine. Una suprema appartenenza domina l’intero lavoro ed è quella alla sensibilità americana, di cui Springsteen percepisce la naturale condivisione coi connazionali. Se si è americani, non si può non sentire cosa sia l’America, il senso di decenza e rispetto che ne stanno alla base. E, in musica, non si può non essere toccati da quei suoni, quegli andamenti, quei ritmi, quell’incedere che si chiama tradizione e nella quale Springsteen affonda le mani per dare espressione a “Wrecking Ball”, con l’intuizione di considerare “tradizione”, materia nazionale accessibile a tutti, stabilizzata, perfino quella tranche rap che irrompe in coda al gospel di “Rocky Ground”: “Usa muscoli e testa come puoi, al resto penserà il Signore”.

    E’ così che è progredito, nel segno della continuità, il suono di John Steinbeck, di John Ford e della Bibbia americana. Il messaggio è lo stesso: fuori l’orgoglio e gli attributi e basta predicatori. “Ci penseremo da soli” dice il Boss in apertura: il fatalismo diventa forza, si scrolla l’eccesso di chiacchiere e lo spirito congregativo sponsorizzato ai tempi dell’obamiano “We Can”. Sembrerebbe una premessa di ribaltamento verso la vecchia America conservatrice. Ma Springsteen non crede all’equivalenza, convinto com’è che il cattivo potere sia ancora nascosto sotto quelle insegne. Perciò voterà di nuovo il presidente, ma più da lontano di 4 anni fa: le loro strade si sono divaricate e lui oggi è qui a cantare le ragioni dei dimenticati, a costo di cadere in contraddizione col suo florido conto in banca. Del resto i repubblicani hanno talmente fallito in questo appuntamento non tanto con le elezioni ma con l’elettorato, sono così al di sotto delle aspettative, divisi, così malamente incarnati dal candidato che propone di trasformare l’America in un’azienda, da eliminarsi da soli. Il messaggio del Boss resta lontano da Washington ed è ai Signor Nessuno, alla loro volontà, alla loro capacità di connettere i punti, alla loro ostinazione e alla loro logica. In ciò “Wrecking Ball” trasuda dignità, lontano dal formale sospiro aggregativo di Occupy (i detrattori adesso lo sfottono e lo chiamano Occupy New Jersey) e verso la soluzione esistenziale d’individualismo coerente non soltanto con la vecchia poetica blue collar di Springsteen, ma con la casistica di scelta dell’americano medio.

    Ci hanno distrutto le famiglie, le fabbriche e ci hanno preso la casa”, canta in “Death To my Hometown”, tono laconico, addolorato e solenne, ma non sprofondato nella disperazione: il nuovo inizio esiste, seppure non andrà dimenticato che solo di se stessi ci si può fidare e sulle proprie forze si può fare conto, come accadde ai padri. Nel pezzo più commovente dell’album, Bruce canta con sentimentalismo dell’uomo per tutte le stagioni, il jack of all trades: “Ti taglio il prato, ti tolgo le foglie dallo scarico… so fare tutti i mestieri, amore ce la faremo”. La forza. E’ questa la forza americana, lungi dall’essere estinta. “We are alive”, siamo vivi, grida il Boss nel brano finale. S’intravede la fine della guerra. Non sarà più lo stesso. Ma i pistoni girano. Chissà cosa i figli dei figli impareranno di questo tragico momento. Chissà quale lezione da tutto ciò erediteranno.