Inimitabile Dickens

Mariarosa Mancuso

Era famoso come una pop star. E vestiva di conseguenza: gilet rosso, giacca verde bottiglia, calzoni a scacchi, capelli più lunghi del dovuto. Uno schiaffo all’epoca vittoriana che ai maschi imponeva il nero rallegrato dal grigio (cinquant’anni dopo, Oscar Wilde certificherà con un garofano verde all’occhiello, sete e broccati la propria eccentricità).

    Era famoso come una pop star. E vestiva di conseguenza: gilet rosso, giacca verde bottiglia, calzoni a scacchi, capelli più lunghi del dovuto. Uno schiaffo all’epoca vittoriana che ai maschi imponeva il nero rallegrato dal grigio (cinquant’anni dopo, Oscar Wilde certificherà con un garofano verde all’occhiello, sete e broccati la propria eccentricità). Era diventato famoso a 24 anni con “Il Circolo Pickwick”, regalando un nuovo aggettivo alla lingua inglese che già ne ha tanti, e una nuova sindrome alla medicina: nel primo caso significa “da non intendersi alla lettera”, nel secondo identifica un misto di grassezza, fiato corto e stanchezza (dal personaggio di Fat Joe).
    Nel 1840 le puntate settimanali della “Bottega dell’antiquario” vendevano oltre centomila copie ognuna, potendo contare soltanto sul passaparola dei lettori soddisfatti. Non c’erano, a far da volano, le recensioni compiacenti, le ospitate alla radio e alla tv, i book trailer, i blog delle case editrici, Facebook e Twitter (“Letto #oldcuriosityshop. Chi non piange per #piccolanell non è umano”). La regina Vittoria lo ammirava. Gli spazzaletame analfabeti – mestiere assai comune nella Londra del tempo, che riforniva le campagne circostanti di concime umano e animale, non per caso il riccone in “La piccola Dorrit” si chiama Mr. Merdle – se lo facevano leggere ad alta voce. Mai scrittore (e performer, le sue letture erano puro spettacolo) fu più amato dal pubblico.

    Mai scrittore ricambiò con maggiore passione e generosità.
    E fu solo l’inizio. Ancora dovevano arrivare “David Copperfield”, “Oliver Twist”, “Grandi speranze”, “Casa desolata”, “Il nostro comune amico”. Doveva arrivare il successo internazionale, la disputa sui diritti d’autore esteri contro le edizioni pirata (c’erano stenografi che approfittavano delle letture e mandavano il testo in stampa, come certi svelti disegnatori che alle sfilate copiano i nuovi modelli). E il trionfale tour che condusse il cinquattottenne Charles Dickens alla morte prematura: si accasciò su una pagina ancora fresca di inchiostro del “Mistero di Edwin Drood”, arrivato alla sesta puntata su dodici previste. Nel suo primo viaggio oltreoceano rimase un mese a New York: a parte qualche nemico che si fece per questioni di schiavitù, fu onorato con un Boz Ball al Park Theater (Boz era il suo primo nom de plume, quando lavorava in coppia con l’illustratore George Cruikshank; un altro disegnatore, Robert Seymour, non sopportò la competizione e soprattutto il successo del giovane scrittore, e morì suicida). Tremila invitati: per fare un confronto, al Black and White Ball organizzato da Truman Capote nel 1966 erano cinquecento.
    Tutto per far dire a un moccioso saccente – Holden Caulfield, ebbene sì, non lo abbiamo perdonato e mai succederà: “Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne”.
    “Baggianate”, inventato dalla traduttrice italiana Adriana Motti, non rende la virulenza dell’invettiva. In inglese leggiamo “kind of crap”. Volete mettere con l’eleganza, e anche la modernità al netto della traduzione, dell’incipit dickensiano: “Diranno queste pagine se l’eroe della mia vita sono stato proprio io, o se tale appellativo non convenga meglio a qualcun altro”. E sempre a proposito di entrate in materia che ingolosiscono, sentite questa da “Dombey e Figlio”: “Dombey era seduto nell’angolo della camera in penombra, sulla grande poltrona accanto al letto, e il Figlio era avvolto al calduccio in una cesta posata con cura su un basso divano proprio davanti al fuoco e molto vicino ad esso come se, simile ad un muffin per costituzione, appena fatto andasse abbrustolito”.

    Il giovane Holden ha un fratello e una sorellina (un terzo è morto l’anno prima) nel romanzo di Salinger e nessuno nella storia della letteratura. Franny e Zooey hanno una loro grazia, ma non certo la qualità celebrata da George Orwell: “Quando Dickens descrive qualcosa, ti rimane davanti agli occhi per tutta la vita”. I personaggi dickensiani riempiono una parete intera del suo studio di Gads Hill Place, nel celebre quadro di Robert William Buss “Dickens’ Dream”. Il sito dedicato allo scrittore da David Perdue ne censisce quattrocento. Quelli dotati di nome proprio, secondo il “Dictionary of British Literary Characters”, sono 989. Molti altri un nome e cognome non lo hanno, ma si fanno ricordare lo stesso. Un esercito bastante per popolare un mondo, costruire una saga, per mettere in moto uno straordinario “meccanismo romanzesco” (il suggerimento è di Mario Lavagetto) che ancora non ha smesso di incantare i lettori. E di impegnare i critici che seriamente cercano di carpire il segreto di tante attrattive.
    Funziona su noi che lo amiamo, si intende. E che con Pietro Citati (ma  anche senza di lui) siamo convinti che non amare Dickens sia un peccato mortale. Perché significa non amare il romanzo. Sport assai popolare tra i letterati italiani, che per non affaticarsi a scrivere – costruire trame è una bella fatica – hanno inventato la “prosa d’arte”, che secondo Stephen King rasenta la contraddizione in termini: “Se la chiamano prosa, un motivo ci sarà”. Quando leggono qualcosa che trascina dalla prima all’ultima pagina, si convincono che qualunque mestierante lo possa fare, e che la letteratura sta da un’altra parte. L’Inimitabile (così Dickens si riferiva a se stesso, che male c’è visto che era nel giusto?) non ha ancora il suo Meridiano Mondadori, mentre Tiziano Terzani già ne ha uno e un altro seguirà. E ne temiamo un terzo per gli sproloqui del figlio Folco, guru scalzo in dialogo con Daria Bignardi (cosa non si fa per rinvigorire l’audience con un po’ di Viagra).

    “Ho un amico che non ama Dickens. Non so se compatirlo o picchiarlo”. Lo racconta Robert Gottlieb – l’uomo che scoprì “Comma 22” di Joseph Heller e ha editato i libri di Salman Rushdie, Mordecai Richler, Toni Morrison – in un’intervista sul sito del New York Times. Noi siamo per il “non sanno cosa si perdono”. L’inizio di “Casa desolata”, per esempio: una sinfonia novembrina di fumo, fango, nebbia, fuliggine che scende dal cielo “come fiocchi di neve vestiti a lutto”, pedoni irascibili, cavalli inzaccherati fino ai paraocchi, melma che si accumula “a tassi di interesse composto”. Niente di meglio per introdurre l’annosa causa al centro del romanzo, “Jarndyce vs. Jarndyce”. “Una famiglia e la sua eredità” suggerirebbe assai più tardi Ivy Compton-Burnett, che così intitola uno dei suoi secchi romanzi di soli dialoghi. E via con i testamenti: ce n’è almeno uno contestato, o perduto, o falsificato in ogni romanzo dickensiano (e in ogni rispettabile romanzo ottocentesco). E via con certe descrizioni perfide: il mestiere avvocatizio non ci fa una gran figura, Dickens li aveva visti all’opera quando fece il cronista giudiziario, prima della promozione a cronista parlamentare. E via con la storia di Esther Summerson, che narra la vicenda alternandosi con un narratore che curiosa dappertutto: nella casa desolata, nell’abitazione dei vicini, su una madrina che non è solo una madrina, su un omicidio che forse ha legami con l’interminabile causa discussa in tribunale.

    Più cupo, e altrettanto meraviglioso, è il primo capitolo di “Il nostro comune amico”, terminato nel 1865. Una barca malandata sul Tamigi, una ragazza ai remi, un uomo che scruta l’orizzonte in cerca di qualcosa. Non sono pescatori, l’imbarcazione non ha reti o lenze. Non si vedono cuscini per passeggeri, o altre attrezzature per sollevare carichi. Ed è escluso che siano nullafacenti in gita. “Stavano facendo evidentemente qualcosa che facevano spesso, e cercavano quello che spesso avevano cercato” annuncia il narratore. Cercano cadaveri galleggianti, ma la parola non viene pronunciata mai. Neanche quando il barcaiolo Gaffer viene invidiato per la sua buona fortuna da un rivale: “E’ la mia solita scalogna, guarda un po’! Deve essermi passato vicino quando è venuto a galla l’ultima volta, perché io ero di sentinella  qui dopo il ponte. Mi pare quasi che tu sei come gli avvoltoi, compare, che ne senti l’odore”.

    Svuotano le tasche dei morti per procurarsi un po’ di denaro, nelle sere in cui va bene. Nelle altre sere rimediano qualche rifiuto ancora utilizzabile che il fiume trasporta. Alla figlia che non sopporta la vista dell’acqua nera, il padre fa la ramanzina: “Come puoi essere così ingrata con il tuo migliore amico? Il fuoco che ti scaldava quando eri piccola lo prendevo dal fiume, dai bordi delle chiatte di carbone. La cesta dove dormivi l’aveva spinta sulla riva la marea. Perfino i sostegni che ci misi sotto per farne una culla li avevo ricavati da un pezzo di legno caduto da chissà quale nave”.
    “Il nostro comune amico” è il grande romanzo ottocentesco sui rifiuti. Italo Calvino, grande ammiratore dell’Inimitabile prima di ammalarsi del morbo strutturalista e scrivere “Se una notte d’inverno un viaggiatore” (caposaldo, se mai ce n’è stato uno, della letteratura che irrita il lettore invece di deliziarlo), lo prende a modello per la “città invisibile” chiamata Leonia. Fanno da contrappasso nel secondo capitolo – Dickens sapeva bene il suo mestiere, la sapienza con cui alterna lacrime e risate non ha pari – i signori Veneering, arricchiti da pochissimo: “Erano gente nuova di zecca in una casa nuova di zecca in un quartiere di Londra nuovo di zecca. Tutto ciò che li circondava era nuovo fiammante. Erano nuovi i loro mobili, i loro amici, i loro servi, l’argenteria, la carrozza, i quadri. Loro stessi erano nuovi, sposi novelli quanto bastava perché fosse legittimo il loro bambino nuovo di zecca”.

    Quando Charles aveva dodici anni suo padre fu rinchiuso per debiti nella prigione di Marshalsea. Il ragazzino cominciò a lavorare in una fabbrica di lucido da scarpe, dove incollava etichette. Sei mesi, mai più dimenticati, al pari dello scherzetto che il genitore giocò al piccolo Alfred Hitchcock, facendolo chiudere in una cella e alimentando un senso di colpa durato una vita intera. Senza quel lucido da scarpe, sostiene Christopher Hitchens nell’ultimo suo pezzo uscito su Vanity Fair, non avremmo il Dickens che conosciamo. O almeno quel che conosce lui: tanta insistenza sull’inner child – ovvero: il bambino che è in noi, creatura contro cui volentieri imbracciamo il kalashnikov – pare francamente una personale fissazione.

    Tanta fortuna e tanto successo in vita, qualche inciampo dopo la morte. Dickens è l’esatto contrario del “grande scrittore postumo”: nulla è rimasto nei cassetti, nessuno può vantarsi per la sua riscoperta e neanche per averlo sottratto a un destino da bestsellerista sputacchiato dalla critica. Scrittore da classifica con un cospicuo indotto, peraltro: fu tradotto, adattato, drammatizzato, abbreviato a uso dei lettori deboli. In anni più vicini, fu preso come ispirazione per musical e film – Roman Polanski ha scelto “Oliver Twist”, ricordando la propria fuga dal ghetto di Cracovia. E imitato in finti romanzi vittoriani, da “Il petalo cremisi e il bianco” di Michel Faber, a “Jack Maggs” di Peter Carey, alle storie di Sarah Waters, che aggiungono spiritualismo, lesbismo, travestimenti. La vendetta si consuma piazzando i suoi libri – in omaggio al principio che l’infanzia strapazzata vuole lettori facili ai singhiozzi – nelle biblioteche per bambini. Era già accaduto con “I Viaggi di Gulliver” di Jonathan Swift, giusto perché c’erano i lillipuziani e un naufragio. La spettrale Miss Havisham impazzita dopo che lo sposo l’ha abbandonata all’altare – o Fagin, o la povera Nancy ammazzata di botte in “Oliver Twist”, o il macabro incidente ferroviario in “Dombey e figlio”, quando Carker è “afferrato e trascinato via come sulla ruota dentata di un mulino che lo fece girare vorticosamente, lo dilaniò, con il suo calore violento lo svuotò della linfa della vita e lanciò in aria i suoi frammenti mutilati” – sfuggono all’attenzione, pur essendo spaventosi quanto un videogioco. Racconta il giornalista vittoriano Charles Foster Kent (in “Dickens as a Reader”) che lo scrittore prima di azzardarsi a leggere in pubblico la morte di Nancy, fece le prove con amici fidati. E tutti gli dissero: “Lascia perdere che poi la gente sviene”.

    Dickens non piace ai romanzieri realisti che vengono dopo di lui, perché pensa al romanzo come a una macchina che tutto macina, magari imperfetta e sporca ma trionfante. Negli stessi anni, Gustave Flaubert scriveva, cancellava, riscriveva e limava “Madame Bovary”: guai a fargli fretta. Quanto a informarsi sulla sorte di Emma – come facevano i lettori da feuilleton, chiedendo agli scaricatori delle navi che portavano in America le puntate “è morta la piccola Nell?” – sarebbe stata un’imperdonabile gaffe. Dickens piace anche meno ai romanzieri modernisti, nemici del narratore onnisciente e innamorati del flusso di coscienza. Nessuno più di loro ha gettato fango sui colpi di scena: il monologo interiore non li ha (ma è appunto per questo che ci buttiamo sui romanzi per un po’ di felicità quando siamo in fase rimuginativa). L’unico che sempre difese Dickens contro tutti fu G. K. Chesterton. Ma neppure lui risparmia una punta di cattiveria a proposito dell’incompiuto “Mistero di Edwin Drood”: “Lo scrittore più debole di tutti nella costruzione delle trame ha messo mano a una detective story. L’uomo che non sapeva tenere un segreto si è portato il più importante nella tomba”.

    Sbagliato due volte. Molti hanno provato a terminare il romanzo incompiuto senza riuscirci, tra loro Fruttero & Lucentini. Altri 199 seguono, secondo i calcoli fatti un paio d’anni fa della Dickensian Society (nel frattempo devono essere aumentati). Vuol dire che la trama proprio elementare non era (e non son deboli neanche le altre, solo che Dickens era un entusiasta, e se poteva aggiungere qualche fuoco d’artificio lo faceva). Ci sarebbe voluto Edgar Allan Poe, che cercò di anticipare il finale di “Barnaby Rudge”: ne nacque una disputa sulle riviste letterarie, perché l’americano – una volta letto il finale scritto dall’inglese – rimase convinto che quello giusto fosse il suo (con la stessa ostinazione, un francese che si chiama Pierre Bayard ha scritto un libro intero per dimostrare che l’assassino di Roger Ackroyd non è quello che dice Agatha Christie nel romanzo).
    Dickens si è portato nella tomba un altro segreto: la sua relazione, forse platonica o forse carnale, con la giovane attrice Ellen Ternan. Sicuramente viaggiavano insieme (chaperon la madre di lei) al momento del disastro ferroviario di Staplehurst, nel 1865. Dickens aiutò le operazioni di salvataggio e poi rischiò la vita per ricuperare il manoscritto del “Nostro comune amico”. E sicuramente la moglie Catherine sapeva. Colpa di un gioielliere distratto che recapitò al domicilio coniugale un regalo prezioso destinato a Ellen.