Douthat spiega l'eresia americana e le sue ricadute politiche

La vittoria di Newt Gingrich alle primarie della South Carolina è un’ulteriore conferma della frammentazione ideologica e strategica di un partito dalle molte anime che nelle votazioni dei primi tre stati ha promosso tre candidati diversi. Il columnist del New York Times Ross Douthat, uno dei due conservatori nel parco degli opinionisti del quotidiano, lo chiama “il fallimento del conservatorismo”, dove fallimento indica innanzitutto “l’incapacità di offrire idee e soluzioni politiche credibili”.

    La vittoria di Newt Gingrich alle primarie della South Carolina è un’ulteriore conferma della frammentazione ideologica e strategica di un partito dalle molte anime che nelle votazioni dei primi tre stati ha promosso tre candidati diversi. Il columnist del New York Times Ross Douthat, uno dei due conservatori nel parco degli opinionisti del quotidiano, lo chiama “il fallimento del conservatorismo”, dove fallimento indica innanzitutto “l’incapacità di offrire idee e soluzioni politiche credibili”. Parlando con il Foglio, Douthat spiega che l’insistenza di Gingrich sulle “big ideas” e le “big solutions” è lo specchio retorico dell’inconsistenza politica dell’ex speaker della Camera, uno che “avrà anche molte idee come dice, ma poi nella realtà non ne parla mai e si limita ad attaccare Mitt Romney con la più classica delle campagne negative”.

    Nel 2009 l’opinionista cresciuto professionalmente nel mensile Atlantic ha scritto assieme a Reihan Salam “Grand New Party”, un libro di andamento analitico e provocatorio che invitava il Partito repubblicano a liberarsi dagli abiti ideologici che aveva indossato nella sua stagione più sfolgorante e che alla fine del mandato di George W. Bush sembravano irrimediabilmente fuori moda. Servono soluzioni che tengano conto delle esigenze del presente – dall’immigrazione al welfare – e non escludano la working class, scriveva allora Douthat, il quale oggi è, se possibile, ancora più scettico sulla possibilità di elaborare ricette efficaci all’interno del partito. Non del Partito repubblicano come complesso di idee e convinzioni, ma di questa particolare compagine. “In America le piattaforme politiche funzionano quando offrono soluzioni – dice Douthat – Negli anni Settanta e Ottanta i repubblicani avevano idee molto precise, ad esempio la lotta alla criminalità: oggi tutti si sono dimenticati quanto fosse importante questa componente. Poi c’era la grande riforma economica in senso liberale e liberista in un periodo di forte pressione fiscale, c’era l’Unione sovietica che dava l’impressione di poter superare gli Stati Uniti in termini di potere e visione. I democratici non erano in grado di affrontare queste sfide. Ora il crimine non è più un problema significativo, i sovietici non ci sono e nessuno si sente tassato in maniera eccessiva: i nuovi problemi riguardano gli stipendi, il sistema sanitario, il debito pubblico e la recessione. Credo che nel 2008 Obama abbia vinto soltanto in parte per il grandioso lavoro d’immagine fatto durante la campagna elettorale, mentre per lui è stato fondamentale dare l’impressione di avere soluzioni concrete. Le ha messe in pratica? Non direi. Ma la gente lo ha votato per quello”.

    L’evoluzione dell’uomo conservatore
    Fra Romney, Gingrich, Santorum e Paul c’è qualcuno in grado di mettere sul piatto soluzioni immediate? “Per il momento no, ma credo che l’unico che abbia qualche possibilità di convincere gli elettori della sua competenza sia Romney. Quella delle primarie è una corsa lunga in cui si afferma il più competente, quello che la gente guarda e dice, a torto o a ragione: ‘Lui potrà risolvere i problemi del paese’. La purezza ideologica non premia, come dimostrano gli abbandoni precoci di candidati più connotati ideologicamente o di un moderato come Jon Huntsman, che si è presentato come l’argine agli eccessi del conservatorismo. Per quello bastano gli elettori, non serve un candidato”.
    E’ dall’inizio della campagna che si fanno diversi nomi come possibili sorprese nella formazione dei candidati. I vari Chris Christie, Mitch Daniels e Jeb Bush hanno spiegato che non intendono correre, ma nella confusione i loro nomi sembrano riemergere, specialmente quello di Daniels, che farà il controdiscorso repubblicano dopo lo Stato dell’Unione. Uno scenario credibile? “Sono un fan di Mitch Daniels, è allo stesso tempo un vero conservatore e un pragmatico, uno che sa cosa significa governare. Non credo che lui o altri possano entrare in corsa, ma sono convinto che, nello sforzo di rinnovamento, tenderanno ad affermarsi questo tipo di figure. Gente competente, genuinamente conservatrice che però è capace di parlare a tutti”.

    Uno schema binario superato
    Dalla fine della presidenza Bush, Douthat ha iniziato una riflessione più ampia sulla società americana, andando a ricercare le origini profonde di una crisi americana che non si rileva soltanto in termini economici, ma nelle strutture sociali e politiche, tanto che “le primarie repubblicane sono lo specchio di questa crisi”. In fondo ai problemi materialmente rintracciabili il cattolico Douthat vede un groviglio religioso che è precipitato in “Bad Religion How We Became a Nation of Heretics”, libro in uscita ad aprile di cui il columnist accetta di fare una panoramica in anteprima. “Durante la presidenza Bush il dibattito religioso si è appiattito su uno schema binario che tendeva a coincidere con quello politico. Da un parte c’erano gli atei liberal tipo Dawkins e Hitchens, dall’altra i bigotti conservatori ossessionati dai temi etici.

    Questa lente però non era sufficiente a leggere la realtà, mancava qualcosa, ovvero l’idea che le istituzioni religiose in America sono in crisi. Non si tratta di una crisi del sentimento religioso che permea la cultura americana, ma di una crisi delle chiese cristiane. L’America oggi non è un paese cristiano ma nemmeno postcristiano. In Europa la secolarizzazione è avanzata in modo tambureggiante, mentre qui a prima vista siamo ancora influenzati dalle idee cristiane, ma si è perso il contesto, in una parola s’è persa la chiesa. Per questo nel libro parlo di diversi surrogati americani all’oggettività ecclesiastica, dal ‘Vangelo della prosperità’ di taglio calvinista al ‘dio interiore’ incarnato a livello della cultura popolare da Oprah Winfrey. Poi c’è il pensiero religioso legato alla politica, quello dei leader apocalittici come Glenn Beck”.

    A proposito del dio interiore, Harold Bloom in “The American Religion” sosteneva che il cristianesimo americano ha tratti gnostici che si esprimono nell’intima anarchia di una connessione diretta con il divino. Douthat dice che questa prospettiva “ha tratti di verità, ma non è completamente azzeccata, perché i cristiani americani hanno un sentimento di positività per la vita che in qualche modo argina lo gnosticismo. Ma non c’è dubbio che quella del dio interiore sia un’eredità inscritta nello spirito americano. Adesso fa sorridere rileggere il famoso sermone con cui Emerson scandalizzò Harvard: sosteneva di non credere al cristianesimo né in senso storico né in quello dottrinario, ma che Gesù era uno spirito illuminato. Allora l’establishment dell’accademica religiosa ha gridato all’anatema, mentre ora sottoscriverebbe con il sorriso le sue affermazioni”. Su questa ipotesi si affaccia però la spiegazione offerta da Charles Taylor in “A Secular Age”: secondo il filosofo canadese la secolarizzazione americana è l’ultima propaggine della riforma protestante, una lettura che Douthat abbraccia a metà: “In parte credo sia vero, ma non sono convinto si tratti di un passaggio automatico. I filosofi straussiani dicono che il cristianesimo ha spazzato via la società antica fondata sulla virtù, rimpiazzandola con una ‘mediocracy’ impersonale che ha svuotato l’umano di significato. Ma io non credo sia colpa di Gesù se la cultura americana produce le ‘Real Housewives del New Jersey’”.

    L’ortodossia cristiana poco invitante
    Quali siano i motivi profondi per cui l’America è diventata una nazione di eretici, Douthat lo spiega toccando diversi punti: “Tutte le istituzioni in America, dallo stato federale alla famiglia, si stanno indebolendo e l’inizio di questo fenomeno lo aveva già osservato Tocqueville. Poi c’è da dire che l’ortodossia cristiana è sempre meno invitante e questo principalmente per quattro motivi. La rivoluzione sessuale, la ricerca della ricchezza, il mercato globale delle religioni e la polarizzazione politica per cui i cristiani nell’immaginario sono per forza repubblicani”. Perché per l’America l’eresia è un’abdicazione, una sconfitta e non una conquista della ragione? Qualcuno certamente la vede in questi termini. “Il cristianesimo – sorride Douthat – è vero, e questo è quello che sostengo personalmente. Ma a livello pubblico cerco di mostrare che la vita collettiva è migliore quando la presenza del cristianesimo è più rilevante. E’ un argomento che ha un aspetto pragmatico. Una visione cristiana del mondo genera benefici anche per chi non è cristiano, perché l’idea del bene comune è un portato del cristianesimo. San Tommaso lo ha spiegato otto secoli fa, e la cosa vale ancora oggi”. All’inizio della campagna  elettorale molti dicevano che fra le adunate di preghiera di Perry e il mormonismo di Romney il tema religioso avrebbe dominato il dibattito, ma poi il fervore s’è affievolito e ci sono cattolici che sostengono Romney così come evangelici che votano Gingrich.

    Cos’è successo? “Un po’ la colpa è dei media – dice Douthat – che sono il settore della società più secolarizzato. Non avendo categorie religiose, giocano a dire che Perry o Bachmann avrebbero fatto con il cristianesimo quello che Khomeini ha fato con l’islam. Quello che è successo, invece, è lo spettacolo della frammentazione anche in ambito cristiano, dove però si sta segnalando una specie di reazione alla riduzione del cristianesimo all’etica. Se fino a qualche anno fa i cristiani votavano essenzialmente sulle questioni legate alla vita e alla famiglia, ora qualcuno inizia a guardare alla ‘big picture’. Per questo non tutti i cattolici amano Santorum e non tutti gli evangelici disprezzano Gingrich, nonostante la sua storia matrimoniale non irreprensibile. Per usare un eufemismo”.