In Israele è guerra civile fra timorati e “mangiatori di conigli”

Giulio Meotti

A giudicare dalla provocazione del responsabile delle pagine culturali di Haaretz, Beny Zipper, i laici israeliani hanno davvero i nervi a pezzi. Zipper tempo fa ha scritto che per salvare lo spirito secolarista ebraico serve “un piano di trasferimento di ebrei laici a Berlino, affinché vi costituiscano un polo alternativo all’Israele così come è oggi”.  Moshe Zar, l’eroe di guerra che combatté nella 101esima divisione sotto il comando di Ariel Sharon, ha risposto così: “Voi della sinistra laica non fate figli e non vi sposate, che futuro avete? Noi siamo il futuro”.

    A giudicare dalla provocazione del responsabile delle pagine culturali di Haaretz, Beny Zipper, i laici israeliani hanno davvero i nervi a pezzi. Zipper tempo fa ha scritto che per salvare lo spirito secolarista ebraico serve “un piano di trasferimento di ebrei laici a Berlino, affinché vi costituiscano un polo alternativo all’Israele così come è oggi”. Moshe Zar, l’eroe di guerra che combatté nella 101esima divisione sotto il comando di Ariel Sharon, che ha perso un occhio e un figlio per mano dei terroristi palestinesi e che oggi acquista terra per i coloni ebrei in Cisgiordania, ha risposto così: “Voi della sinistra laica non fate figli e non vi sposate, che futuro avete? Noi siamo il futuro”.

    I recenti scontri fra la polizia e le componenti estreme dell’ebraismo ultraortodosso, con tanto di emblemi dell’Olocausto branditi a fini politici, hanno riaperto antiche ferite fra l’anima laica e quella religiosa d’Israele. Gli ortodossi stanno suonando gli shoffar, i corni degli arieti, con quel suono desertico che ha cinque millenni di storia, e dichiarano di fronte alle telecamere che mai si sono sentiti così forti: lo stato laico dovrà fare i conti con loro. A sinistra, come ha fatto la colomba Yossi Beilin sul giornale Israel Hayom, c’è già chi propone di dividere le città contese, come Beit Shemesh, fra la zona laica e quella iper religiosa. Una sorta di apartheid territoriale ben vista anche dal premier di destra, Benjamin Netanyahu. Israele è oggi scisso fra due popoli, quello religioso e quello laico, la cui reciproca insofferenza, la mutua denigrazione quotidiana, la rabbia, prima produssero l’assassinio di Yitzhak Rabin e poi innumerevoli episodi fra cui quello di oggi è il punto d’arrivo. Negli ultraortodossi prevale un sentimento di frustrazione e addirittura di oppressione, come se abitassero in un paese straniero e fossero esuli in patria. Nelle loro strade, dove si vive come nello shtetl ucraino del medioevo, è fisicamente palpabile la sensazione di assedio da parte di un mondo che loro ritengono blasfemo e immorale: “Se vivessimo in America sarebbe logico”, vanno ripetendo, “ma nello stato ebraico la sofferenza è atroce”. Il loro motto è: “Prima la Torah, poi lo stato”. La loro ipoteca demografica sul destino del paese è tale che anche il premier Netanyahu, pur condannando le proteste, ha invitato a “non generalizzare sugli ultraortodossi”. Sul Jerusalem Post l’ex rabbino capo dell’esercito, Avichai Rontzky, ha così spiegato la guerra in corso: “La cosiddetta élite – ashkenaziti non religiosi che vivono nel mezzo del paese in quello che è noto come lo ‘stato di Tel Aviv’ – percepisce la propria posizione minacciata dalla comunità nazionale religiosa”. Lo stato ebraico sta diventando sempre più religioso. Lo dicono i numeri e il peso politico dei partiti di ispirazione religiosa. Persino la città simbolo della laicità israeliana, la soleggiata e meridionale Eilat, sta vivendo un boom di sinagoghe senza uguali.

    L’ultimo rapporto dell’Ufficio centrale di statistica ha reso noto che circa l’8 per cento della popolazione israeliana è “ultraortodosso”, il 15 “ortodosso”, il 13 “ortodosso-tradizionale”, il 25 “tradizionale” e il 42 “laico”. Sale al 21 per cento la fetta di popolazione che diventa “molto religiosa”, mentre fra tre decenni gli ultraortodossi di questo passo diventeranno un terzo della popolazione totale. Daniel Hartman, a capo dello Shalom Institute di Gerusalemme, prefigura l’avvento dello “stato halachico” (la legge della Torah, ndr), mentre Neri Horowitz, a capo del think tank Agora, rigetta l’allarmismo: “E’ da irresponsabili generare panico. Gli ultraortodossi stanno attraversando un processo di inserimento nella società”. Lo dimostra il loro approccio nuovo all’esercito, tramite unità come Nahal Haredi, in cui ogni anno servono 130 nuovi ultraortodossi. A inizio di dicembre l’esercito ha persino inaugurato il primo “mikveh” della storia (il bagno rituale ebraico).
    Gli haredim (i “timorati di Dio” ultraortodossi) che oggi battagliano nelle strade di Beit Shemesh sono perlopiù cresciuti sotto l’ala del rabbino Eliezer Menachem Schach, il vecchietto sdentato che definiva i membri dei kibbutz “mangiatori di conigli e di maiali”, che tuonava contro il centro commerciale di Tel Aviv (“un posto dove si va in giro comportandosi come bruti” ), che diceva che la bandiera israeliana era “un pezzo di stoffa simbolico da sventolare a destra e a sinistra” ma che non ha mai impedito, neppure ai ragazzi della sua famiglia come fanno in genere i religiosi, di servire nell’esercito.

    La polemica laici/ortodossi venne innescata molti anni fa da un pamphlet politico-religioso dello scrittore ultra liberal Sefi Rachlewsky, “L’asino del Messia”, un testo di 500 pagine secondo il quale all’orizzonte d’Israele c’era lo stato religioso. Un tempo marginale, il messianesimo sta diventando in Israele una corrente di pensiero centrale in base alla quale sta volgendo al termine il compito storico dei laici. I laici sono l’“asino” che il Messia cavalcherà trionfalmente per annunciare la Salvezza.
    Gli ortodossi hanno il desiderio di sfondare lo “status quo”, ovvero un insieme di leggi non scritte dovute alla consuetudine. Anche se i religiosi in Israele sono riusciti a imporre alcune regole, come il rispetto nei pubblici servizi delle regole alimentari, è stato un patto non scritto a salvaguardare l’armonia: la scelta compiuta da David Ben Gurion quando decise di non scrivere nessuna Costituzione e di lasciare alla lotta politica la convivenza fra laici e religiosi, fra il kibbutz e la Torah. Oggi questo fragile equilibrio è messo in discussione dalla nuova demografia e gli ortodossi, gonfi e immensi, sentono come una minaccia i negozi aperti e le automobili che viaggiano di sabato, l’immissione di ebrei riformati nei consigli religiosi dello stato e tante decisioni a favore della presenza mista di uomini e donne ovunque.


    Alla nascita dello stato i socialisti non ebbero esitazione nello statuire che le donne sarebbero state parte integrante della difesa della neonata nazione. Oggi, sotto il peso religioso, ci si torna a chiedere se anziché il modello dell’integrazione totale, in cui si dorme sotto la stessa tenda, non sia meglio quello in cui l’uomo serve la patria e la donna l’uomo. “Tsahal diventa un esercito di periferie”, scrive Yedioth Ahronoth, secondo cui il contributo maggiore fra i soldati oggi giunge – oltre che dalle colonie – dalle periferie povere e religiose. Nelle settimane scorse i religiosi hanno cercato di modificare l’omaggio cerimoniale dedicato ai caduti, l’Yizkor. Al posto della formula “Israele non dimentica”, le parole “Dio non dimentica”. Non è un cambiamento da poco.
    Ma non ci sono soltanto gli haredim. A marzo, per la prima volta nella storia del paese, con Yoram Cohen un religioso con la kippah è diventato il nuovo capo dello Shin Bet, il potente servizio di sicurezza interno guidato per decenni esclusivamente da laici.
    Lo zucchetto adorna le teste di altri due alti gradi di fresca nomina: il vicecapo di stato maggiore, generale Yair Naveh, e il neo consigliere per la sicurezza nazionale, generale della riserva Yaakov Amidror. Tutti e tre si sono formati in istituti religiosi, prima di entrare nelle Forze armate. E’ la corrente che anima buona parte della base militante dei coloni religiosi di Cisgiordania.
    Il premier Benjamin Netanyahu, laico di formazione statunitense, nel suo stesso partito, il Likud, deve fronteggiare tra un mese la sfida alla leadership da parte del gruppo più numeroso interno guidato da Moshe Feiglin, il quale parla di “caccia alle streghe contro gli haredim” e dice di avere come obiettivo quello di sostituire in blocco l’attuale leadership israeliana “laico-sionista” con una “leadership di persone di fede”, il cui comportamento sarebbe ispirato dalla Torah, la legge ebraica. Anche un’icona della sinistra radical israeliana, l’ex speaker della Knesset Avraham Burg, giorni fa ha detto che “Feiglin è la figura più significativa nella politica israeliana”.

    Persino il ministro della Giustizia, Yaakov Neeman, ha detto che a governare lo stato d’Israele sarà la legge della Torah. “Passo dopo passo, noi restituiremo ai cittadini d’Israele la gloria delle leggi della Torah e faremo della Halakha la legge fondamentale dello stato”, ha tuonato Neeman, che non è ultraortodosso ma un tecnico di formazione. La segregazione sugli autobus di cui si parla molto da giorni, ad esempio, non è stata una iniziativa privata ultraortodossa ma del governo israeliano, che per primo la sostenne nel 1997. Fu Yitzhak Levy, all’epoca ministro dei Trasporti, a lanciare l’idea per incoraggiare gli ultraortodossi a utilizzare i mezzi pubblici, considerati “indecenti”. E si parla già di un terzo delle scuole religiose del paese che ha adottato il modello di separazione fra studenti maschi e femmine.
    Un abisso separa sempre più “i ragazzi di Shenkin”, la sinistra per eccellenza di Tel Aviv, simbolo di una parte del paese, e la pancia popolare e dominante che si snoda fra i popolatissimi quartieri ultraortodossi, le periferie povere e pie, le colonie e i grandi quartieri della Gerusalemme sorta dopo il 1967. Chi cercherà d’imporre a Tel Aviv i costumi di Gerusalemme si troverà di fronte un’opinione pubblica determinata a non farsi rovinare la vita, a vivere e a lasciar vivere. Tel Aviv e Gerusalemme sono dunque esplicitamente definite capitali di due stati diversi all’interno dello stato d’Israele. Profonda è la divisione nel paese fra l’Israele che la scorsa estate ha manifestato a Rotschild Boulevard e quella del Sabato Santo, il giorno benedetto da Dio perché l’uomo a sua volta benedica il creatore senza distrarsi con automobili e telefonini.

    Le famiglie “puppies” dei laici
    La sinistra li chiama “parassiti”, i religiosi rispondono con parole di disprezzo contro quel mondo vuoto e consumista che non sa più che cos’è , da dove viene, in che consiste. Il primo politico abbastanza spregiudicato da usare l’arma religiosa fu Menachem Begin, che vinse le elezioni del 1977 col voto religioso sefardita contro il potere dei vecchi socialisti, Ben Gurion, Golda Meir, Moshe Dayan, Igal Allon. Da allora il peso dei religiosi è cresciuto, anche visivamente: intere città e quartieri fatti di terrazze fatiscenti dove le donne e i bambini si accalcano, e gli uomini offrono i petti incavati coperti dal talled, il manto di preghiera, e davanti ai poliziotti e alle poliziotte lanciano sassi, pannolini, assorbenti sporchi, sacchi di spazzatura e sputi a distanza. Vivono in case senza mobili, indossano vesti rutilanti degne di uno studio antropologico. Gli uomini portano calze bianche fino alle ginocchia, pantaloni alla zuava e palandrane di foggia diversa. Tutto in bianco e nero, i cappelli sono spesso colbacchi di pelliccia anche d’estate. I riccioli laterali cambiano forma (lunghi o corti, davanti o dietro le orecchie) a seconda del gruppo. I bambini indossano gilet neri e sono quasi tutti occhialuti. Le donne portano parrucche e tailleur attillati e lunghi fino ai piedi coi bottoni d’oro. Le bambine sono vestite come le spose.

    Crescono a un ritmo doppio rispetto ai laici anche gli abitanti delle colonie più ideologiche e religiose, dove è meglio viaggiare con l’auto blindata, dove si contano centinaia di agguati mortali e da dove la gente fa la spola fino in qualche ufficio a Gerusalemme. Fra pochi anni, gli israeliani che vivono oltre l’invisibile Linea verde del 1967, i “coloni”, raggiungeranno il milione di persone. Lo ha detto tre giorni fa Naftali Bennett, l’ex direttore dello Yesha, l’organizzazione dei coloni. Sebbene haredim e coloni siano figli di mondi culturali e politici agli antipodi, non è raro oggi trovare capi dei settler che denunciano l’isteria anti haredi. L’uso della stella gialla dell’Olocausto venne inaugurato dai settler durante l’evacuazione delle colonie di Gaza. Inoltre, Beitar Illit e Modin Illit sono oggi le più grandi colonie di Cisgiordania, ma soprattutto città completamente ultraortodosse.

    Recentemente l’Università di Haifa ha rilasciato un rapporto choc: “Israele 2010-2030, verso lo stato religioso”. Arnon Sofer, autore dello studio, ha detto che la vera guerra demografica non è fra arabi ed ebrei, ma fra la nuova minoranza ebraica laica e la maggioranza ebraica religiosa. Alla Knesset Sofer ha detto: “Il paese avrà una leadership religiosa nel 2030. Oggi ci sono 700 mila nazionalisti religiosi e 700 mila ultraortodossi. Entro pochi anni, le comunità avranno due milioni e mezzo di membri. Gli unici figli delle famiglie laiche sono i ‘puppies’”. Tradotto: due genitori, un figlio e un cane. Otto sono i figli in media per ogni famiglia ultraortodossa.

    • Giulio Meotti
    • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.