Così la grande rissa tra krugmaniani e Chicago boys invade i blog

Michele Masneri

I rapporti tra economisti keynesiani e colleghi della Scuola di Chicago non sono mai stati idilliaci, ma ci voleva la grande crisi (e l’invenzione dei blog) per arrivare allo scontro quasi fisico tra le due correnti di pensiero e i loro rappresentanti. Che il match intellettuale fosse salito di tono era evidente sin dal primo di gennaio. Che il match intellettuale fosse salito di tono era evidente sin dal primo di gennaio, quando il premio Nobel Paul Krugman dalle colonne del New York Times aveva scritto che “chi si affida a economisti della Heritage Foundation ha dovuto attendere che Barack Obama venisse eletto per capire che i deficit di bilancio avrebbero mandato i tassi di interesse alle stelle. Che tempismo!”.

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    I rapporti tra economisti keynesiani e colleghi della Scuola di Chicago non sono mai stati idilliaci, ma ci voleva la grande crisi (e l’invenzione dei blog) per arrivare allo scontro quasi fisico tra le due correnti di pensiero e i loro rappresentanti. Che il match intellettuale fosse salito di tono era evidente sin dal primo di gennaio, quando il premio Nobel Paul Krugman – principe degli economisti neokeynesiani e liberal – dalle colonne del New York Times aveva scritto che “chi si affida a economisti della Heritage Foundation” – il think tank conservatore e liberista – “ha dovuto attendere che Barack Obama venisse eletto per capire che i deficit di bilancio avrebbero mandato i tassi di interesse alle stelle. Che tempismo!”. Insomma, quanto sono faziosi i conservatori. Krugman è protagonista del dibattito tra chi considera salvifiche le operazioni di stimolo dell’economia partite nel 2008 e i teorici dello stato minimo e della responsabilità fiscale. Ha resuscitato provocatoriamente uno dei concetti più estremi del pensiero keynesiano, quello secondo cui il debito pubblico potrebbe salire anche all’infinito perché “è denaro che dobbiamo a noi stessi”.
    L’editorialista del Nyt sostiene che i neoliberisti non capiscono il problema; gli economisti neo-neoclassici, cioè gli epigoni della scuola di Chicago (quelli, in estrema sintesi, della teoria dei mercati che si autoregolano e dello stato minimo, di cui i campioni furono Milton Friedman e George Stigler) ribattono accusando il premio Nobel e i neokeynesiani in genere di essere irresponsabili demagoghi. Per di più “corrotti”.

    J. Bradford DeLong, docente di Economia alla University of California, appassionato keynesiano anche lui, ha recentemente postato sul suo blog una vecchia intervista sul New Yorker in cui un economista di Chicago come Eugene Fama accusava sostanzialmente Krugman e soci di essere troppo affettuosamente vicini a Washington. Non solo: “Krugman vuole essere lo zar del mondo. Non ci sono economisti che gli piacciano”. Anche Lawrence Summers, ex ministro del Tesoro di Bill Clinton, e oggi direttore del National Economic Council, è considerato troppo vicino al potere politico (“che altra posizione potrebbe prendere senza perdere il posto? E il posto gli piace”). DeLong riporta anche un’analisi di un altro monetarista come Richard Posner, secondo cui Krugman, insieme con Summers e l’ex consigliere economico di Obama, Christina Romer, sarebbero corrotti, perché “non credono a quello che sostengono”.

    Bisogna tornare indietro agli anni Settanta per trovare toni di questo genere, gli anni in cui usciva un celebre saggio come “Democrazia in deficit, l’eredità politica di Lord Keynes” (1977), del premio Nobel James M. Buchanan e di Richard E. Wagner, nume tutelare della George Mason University, in cui si denunciavano le conseguenze del keynesismo applicato alla democrazia, sostenendo che il primo, a partire dalla distruzione del principio del pareggio di bilancio, avrebbe incoraggiato le peggiori tendenze dei politicanti. E proprio questo testo sacro del dissenso continua a far fiammeggiare il dibattito. Un economista libertario come Donald Boudreaux, che da anni bacchetta Krugman (“non conosce nemmeno l’abc dell’economia”), gli ha scritto una lettera aperta sul blog Café Hayek insinuando che “se leggesse il libro di Buchanan capirebbe perché il suo ragionamento è fallace”.

    Alex Tabarrok, che insegna proprio al James M. Buchanan Center for Political Economy della George Mason University, centro della “reazione” neo-neoclassica, sul blog Marginal Revolution si diverte a mettere il Krugman di oggi contro il Krugman di nove anni fa, quando scriveva: “Assistiamo a una crisi fiscale che manderà i tassi alle stelle (…) ma ciò che spaventa è soprattutto la solvibilità dello stato”. Eppure i mercati non la pensarono così. Krugman replica sdegnosamente citando “l’insularità dei ragazzi di Chicago”, perché “quello monetarista è diventato ormai un culto ermetico, chiuso a qualunque informazione pagana, che deve essere sempre più autoreferenziale per poter mantenere il rispetto di se stesso”.

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