La corruzione e quel flop di Mani Pulite

Redazione

Quello che il pubblico ministero Paolo Ielo ha sentito durante l'inchiesta sulle presunte tangenti Enav-Finmeccanica è qualcosa di molto famigliare per un ex magistrato del pool di Mani pulite. Passato alla procura di Roma dopo anni di inchieste con Francesco Saverio Borrelli e Gerardo D'Ambrosio, Ielo si ritrova ad attestare il fallimento sostanziale delle promesse di un'intera stagione giudiziaria.

    Quello che il pubblico ministero Paolo Ielo ha sentito durante l'inchiesta sulle presunte tangenti Enav-Finmeccanica è qualcosa di molto famigliare per un ex magistrato del pool di Mani pulite. Passato alla procura di Roma dopo anni di inchieste con Francesco Saverio Borrelli e Gerardo D'Ambrosio, Ielo si ritrova ad attestare il fallimento sostanziale delle promesse di un'intera stagione giudiziaria: la speranza che la corruzione, contrastata a colpi di legalità, sarebbe stata sconfitta si è rivelata illusoria.

    Lo stesso Antonio Di Pietro, uomo di punta del pool milanese oggi alla guida dell'Idv, l'ha ammesso: “Molti di quelli che vedo in giro in questi giorni io li avevo già visti. Anzi, li avevo già presi”. Il “rilancio della questione morale”, che Di Pietro propone come cura valida “ora come allora”, però, si dimostra arma spuntata, a giudicare dai risultati di vent'anni di sforzi. Il problema, infatti, riguarda la struttura delle istituzioni, che non è stata in grado di evitare il ripetersi di uno scandalo di natura trasversale – solo in queste prime battute si leggono già nomi dell'Udc, degli ex di An, di società vicine a Follini così come personalità legate a Gennaro Mokbel, e lo scandalo tripartito ha agganci anche a sinistra.

    In vent'anni il sistema corruttivo si è addirittura “balcanizzato”, dice al Foglio Giorgio Meletti, giornalista economico del Fatto quotidiano: “Prima il sistema era diretto in modo centralistico dai partiti. Oggi, se si esclude il caso di Giuseppe Naro (il tesoriere dell'Udc accusato dalla procura di Roma di aver avuto un finanziamento illecito da 200 mila euro), il sistema non è più governato: ci sono personaggi che, circondati da una rete di amicizie e alleanze, agiscono come se fossero dei micropartiti personali”. Secondo Meletti, “sono ‘azionisti di fatto', che hanno una posizione di potere che gli permette di avere voce in capitolo nelle nomine, che lottizzano non per conto del partito, ma prima di tutto per sé”. Il Foglio è convinto dell'efficacia di una riforma radicale del sistema stesso di finanziamento dei partiti politici, magari ricalcando quello che negli Stati Uniti è regola e prassi consolidata: visti i costi rilevanti della politica, il partito si occupa principalmente di raccogliere finanziamenti, secondo modalità normate e capillari, mentre gli eletti fanno politica nelle sitituzioni. Meletti dissente: “Visto il livello dell'attuale finanziamento pubblico, non credo che la corruzione nasca soltanto dall'esigenza di finanziare i partiti”, dice Meletti, che per Finmeccanica – “spolpate da persone che dall'esterno possono farle crollare senza rimetterci” – vede una sola soluzione praticabile: “Il governo Monti deve azzerare i vertici e metterci una persona nuova, che possa dirigere Finmeccanica nell'interesse dell'azienda”– che, come ha ricordato Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera, “corrisponde all'interesse nazionale”. Di certo l'azienda non va privatizzata, “per evitare che venga spolpata come lo fu Telecom”.

    Per le aziende private, che a differenza di Finmeccanica sono contendibili da altri in caso di mala gestione, Meletti ritiene che per arginare la corruzione, più che una crociata giudiziaria, si debba “mettere fuori legge i patti di sindacato, in cui chi deve controllare si spartisce i benefici privati del controllo. Se non si cambia questo, i grandi gruppi privati continueranno a essere spolpati da persone che non devono rispondere a nessuno dei risultati”.