Il fantasma dell'Unipol

Alessandra Sardoni

Veder spuntare una nuova imputazione per Silvio Berlusconi, sia pure “coatta”, nella vicenda dell'intercettazione con la storica domanda di Piero Fassino a Giovanni Consorte (“Abbiamo una banca?”) ha provocato nell'ultimo segretario dei Ds un sospiro di sollievo. “Fu un regalo elettorale”, ha scritto il portavoce in una nota, rivelatrice di quale fardello siano state per Fassino le parole che da sei anni lo inchiodano, perfino più di Massimo D'Alema, a un sogno di potere bancario o più semplicemente a una storia finita male. Quasi che la comparsa del premier nella vicenda potesse cancellare il nastro.

    Veder spuntare una nuova imputazione per Silvio Berlusconi, sia pure “coatta”, nella vicenda dell'intercettazione con la storica domanda di Piero Fassino a Giovanni Consorte (“Abbiamo una banca?”) ha provocato nell'ultimo segretario dei Ds un sospiro di sollievo. “Fu un regalo elettorale”, ha scritto il portavoce in una nota, rivelatrice di quale fardello siano state per Fassino le parole che da sei anni lo inchiodano, perfino più di Massimo D'Alema, a un sogno di potere bancario o più semplicemente a una storia finita male. Quasi che la comparsa del premier nella vicenda potesse cancellare il nastro.

    Ma di quella stagione non restano solo le citazioni celebri, l'“evvai facci sognare” di D'Alema che fu il sostenitore convinto e pubblico della scalata dell'Unipol alla Bnl e degli outsider che la tentarono.  Resta piuttosto una questione politica – evaporata solo apparentemente con la nascita del Pd e la fine, per mano giudiziaria, del tentativo dalemiano di scardinare dall'interno gli equilibri del capitalismo italiano di allora e farsi largo. Le inchieste di Monza e il caso Penati hanno riportato in superficie lo scontro di potere che, nell'estate del 2005, intorno al dinamismo dell'Unipol di Consorte e complessivamente al risiko bancario, infuriò dentro il centrosinistra fra i Ds e la Margherita (che si preparavano all'amalgama e al ritorno di Romano Prodi) e dentro i Ds (dove Veltroni e sul fronte sinistro Fabio Mussi si battevano contro D'Alema e Fassino). Il gancio è in quella parte dell'inchiesta che riguarda l'acquisto di una tratta dell'autostrada Milano-Serravalle dal gruppo Gavio al prezzo di 8,83 euro per azione contro il 2,19 pagato dal costruttore oggi scomparso. Cinquanta milioni di euro dei 179 della plusvalenza furono investiti dallo stesso Gavio nella scalata Unipol. Le circostanze che Gavio fu presentato a Penati da Bersani e che Gavio non fosse interessato all'operazione di Consorte, ma fu convinto come racconta l'ex sindaco di Milano Gabriele Albertini, compone una materia sensibile. “Il dubbio è sufficiente a mettere in difficoltà il segretario”, dice al Foglio Nicola Rossi, senatore ex Pd traslocato di fresco in zona Montezemolo, e liberal mai pentito. Per non dire dell'anatema di Mussi, che la scorsa settimana sul Fatto ha gettato molte ombre sugli ex Ds e persino sull'elezione (era il 2001) dell'ultimo segretario dei Democratici di sinistra Piero Fassino. Finora, in modo pubblico, solo esponenti esterni al Pd hanno lanciato sospetti intorno al mondo degli ex Ds ma la verità è che, seppur in modo riservato, anche il Pd vive di analoghe fibrillazioni. “E'il passato che agguanta il presente”, riassumono alcuni anonimi nel Pd, quelli che nell'estate dei furbetti militarono contro le ambizioni di Unipol.

    Mescolano soddisfazione – perché in fondo “l'avevano detto loro quelle frasi lì” – e imbarazzo, perché non si infierisce sul segretario e poi c'è poco da stare allegri. Citano le loro interviste indignate dell'epoca quando, contro gli endorsement di D'Alema e Fassino e Bersani, tirarono in ballo la questione morale. E il grande tema del collateralismo fra politica ed economia. Poi abbandonato sull'onda di altre emergenze. E' un presente tutto giudiziario a rievocare la vicenda e consigliarne la ricostruzione tenendo presente che, a sei anni di distanza, non c'è una lettura condivisa. Tutt'altro. E che l'unica verità è per l'appunto quella delle condanne, arrivate prima dell'estate, per Gianpiero Fiorani, Giovanni Consorte e il governatore di Bankitalia Antonio Fazio.

    Accompagnate dal sottodibattito che i reati finanziari sono scivolosi, difficilmente documentabili e dunque dalla convinzione dei fautori che l'estate 2005 si possa considerare solo in termini di vincitori e vinti non di chi aveva torto e chi ragione. Accadde che una banca tradizionalmente vicina alla Margherita, la Bnl, presieduta allora dall'ex presidente di Confindustria Luigi Abete, rutelliano, fosse diventata l'oggetto del desiderio dell'Unipol, il gruppo assicurativo delle Coop vicinissimo ai Ds guidati allora da Fassino, segretario e da D'Alema presidente. Bersani era il responsabile economico. Gli scalatori, in testa Giovanni Consorte ed Emilio Gnutti, il finanziere bresciano già protagonista controverso dell'opa di Olivetti su Telecom nel 1999, sono gli stessi impegnati nel contemporaneo assalto della Banca popolare di Lodi (guidata da Fiorani) ad Antonveneta. Entrambe le operazioni si svolsero con la sponsorizzazione del governatore di Bankitalia Antonio Fazio, che istituzionalmente era l'arbitro e preferiva gli italiani ai competitor stranieri che si erano fatti avanti (gli olandesi di Abn Amro per  Antonveneta e gli spagnoli del Bbva per la Bnl). L'italianità è il côté ideologico della faccenda. Condiviso peraltro da D'Alema, che ci credeva dai tempi di Telecom, quando, proprio Fazio, ne fece l'argomento a favore dell'Olivetti di Colaninno e di Hopa di Chicco Gnutti. Le intercettazioni rivelano il rapporto privilegiato di Fazio con Fiorani e segnano il destino di entrambi. Il problema delle due scalate pronto a ricadere su chi li sostiene è la fragilità finanziaria, una buona dose di avventurismo dei loro condottieri, arma di contrasto nelle mani degli avversari e la loro debolezza politica: sono outsider in tutti i sensi, hanno un problema di origini e solidità generale, di conoscenza di quei mondi, di competenze e perfino di estetica. Il più “out” è Stefano Ricucci l'immobiliarista spericolato al centro del terzo campo di gioco della partita che appunto è tripla e va vista nell'insieme: l'assalto al Corriere della Sera. Berlusconi e poi D'Alema vengono sospettati di esserne alternativamente gli sponsor. Entrambi vedono con favore il rastrellamento di azioni condotto da Ricucci che, in una certa fase, sembra in grado di destabilizzare il patto di sindacato di Rcs. L'ombra di un'ennesima tentazione inciucista del presidente dei Ds – sia pure in funzione antiestablishment – viene evocata dal settimanale Diario di Enrico Deaglio che parla di una pista rossa.

    Il fatto più carico di conseguenze politiche, negative per gli interessati, sono le intercettazioni di D'Alema e Fassino. Documentano le intense frequentazioni, la sponsorizzazione forte delle mire bancarie del mondo cooperativo rosso da parte dei Ds: Fassino che chiede “abbiamo una banca?”. D'Alema con “evvai facci sognare”. In realtà, l'appoggio a Consorte e Sacchetti, all'opa sulla Bnl, il sogno insomma, è pubblico: D'Alema difende la legittimità in alcune interviste, la più rilevante quella al Sole 24 Ore. Difende gli outsider – “che cos'ha Gnutti che non va”, chiede retoricamente. E' una scelta palese coerente con altre scelte fatte in passato ai tempi dell'opa di Telecom, con l'idea che sia giusto scardinare il capitalismo italiano non importa con quali materiali. L'importante è disseminare di casematte spazi un tempo e forse anche allora preclusi, entrare, esserci.

    La reazione è durissima sul doppio fronte dell'establishment economico e degli avversari/alleati politici: si coagula una squadra che va da Francesco Rutelli ad Arturo Parisi, a Cesare Geronzi (l'allora numero uno di Capitalia contrario alla scalata di Unipol su Bnl e che su questo rompe i rapporti tradizionalmente buoni con il presidente dei Ds oltre che con il governatore Antonio Fazio). Fino agli imprenditori Della Valle, Tronchetti, Montezemolo, allora alla testa di  Confindustria e al Corriere della Sera diretto da Paolo Mieli.

    L'approssimarsi della sconfitta incrudelisce il lessico: “Fausto ma com'è che stai con i massoni di Bilbao?”, chiedeva in quei mesi D'Alema a Bertinotti nel tentativo di reclutarlo alla causa della scalata rossa. Di massoni parla il padre nobile Alfredo Reichlin. La teoria dalemiana – che regge l'endorsement e l'atteggiamento proattivo – mescola nazionalismo (il primato della politica che sceglie i suoi uomini nel mondo economico) e il complottismo (i massoni di Bilbao che avranno la loro preda). La battaglia ha la sua azione parallela nel dibattito mediatico: si fronteggiano le letture a tendenza complottista di Rinaldo Gianola che sull'Unità difende Consorte e quelle “riduzioniste” di Massimo Mucchetti che nel suo libro “Il baco del Corriere” difende l'operazione Unipol: “Avrebbe dato vita al quinto conglomerato finanziario italiano un centro di potere economico che a differenza dei quattro maggiori – Unicredit, Intesa, Generali –  non sarebbe stato scalabile per via delle cooperative”; e poi minimizza: Fiorani è solo un piccolo banchiere di provincia, Ricucci non è stato mai una minaccia per il Corriere, sostiene, adombrando l'idea che Ricucci potesse scalare il quotidiano di via Solferino fosse solo una storia creata ad arte. Soprattutto quella lettura nega le intersezioni fra le scalate (“Antonveneta e Fiorani, quella più controversa e giudiziariamente a rischio, non ha nulla a che vedere con Unipol”, è la tesi dei fautori dell'operazione di Consorte). Perché è chiaro che lì è il punto debole: che la matassa sia a tre fili e che i nomi rimbalzino qua e là. Nuovi arrivati e vecchie conoscenze come Gnutti, appunto il finanziere che pagò a Consorte una consulenza milionaria  per la vendita di Telecom  a Tronchetti. 

    La fine, si è detto, l'hanno scritta i giudici. Disseminata nelle sue ricadute politiche, neppure troppe fino al caso Penati, di se e di forse: se D'Alema non avesse tifato, se si fosse evitato di alludere alle ambizioni rispetto al Corriere. Se i protagonisti fossero stati altri e diversi. Non Consorte, non Sacchetti. C'è stato un tentativo “revisionista” incoraggiato dalla crisi economica e finanziaria, la tentata rivalutazione della figura di Fazio che fino all'estate dei furbetti era stato un campione financo nei totoleader del centrosinistra. 

    “Il passato che agguanta il presente”, il fantasma di Unipol che poi è figlio di altre storie e ambizioni. L'eco degli obiettivi “dirigisti” o “costruttivisti” degli anni '90, quando D'Alema perseguiva l'allargamento del capitalismo anche lì contando sugli outsider e cercando contemporaneamente di farsi spazio nei salotti buoni, fino all'incontro, storico, con Enrico Cuccia.  Il “craxismo di D'Alema” come è stato definito dai testimoni di quella fase: Craxi aveva Gardini e Trussardi e Berlusconi, D'Alema cercava imprenditori amici. Allora era il modo di mantenere la presa sulla leadership consegnata a Prodi, che a partire dal mondo Iri era ben radicato nel mondo economico. Nel 2005 l'esigenza è più o meno la stessa: anche allora c'era Prodi, anche allora era stato D'Alema il kingmaker, in più c'era naturalmente la competizione con Rutelli.

    Per Bersani, osservano nel Pd, era ed è diverso. Non una questione di leaderismo, non il costruttivismo in economia. Semmai un'idea di sistema. E' l'uomo del modello emiliano della contiguità con le coop e con certa imprenditoria del nord. Bersani ha rapporti suoi, non solo ereditati dal dalemismo, con Roberto Colaninno, conosce Gavio, ha rapporti suoi, autonomi anche con alcuni mondi confindustriali. Ed è l'uomo del fare in nessun modo genere titanismo, o ghe pensi mi berlusconiano, ma in quella forma di pragmatismo che ha a che fare con i ruoli amministrativi. 

    Ha raccontato l'ex governatore Fazio al pm di Milano Francesco Greco che fu Fassino con Bersani “alla fine del 2004 o ai primissimi mesi del 2005” ad andare da lui a Palazzo Koch: “Sono venuti da me a chiedere se si poteva fare una grande fusione Unipol, Bnl e Montepaschi. Io li ho ascoltati”. C'è una serpeggiante questione dei ruoli e tuttavia oggi che Bersani è il segretario del Pd pesa principalmente su di lui. Offrendo argomenti agli avversari interni che sentono riaprirsi spazi di manovra. L'amalgama mal riuscito tutto sommato aiuta a tenere le distanze come ha fatto Rosy Bindi, presidente del partito, sul caso Penati. O fornisce giustificazioni aggiuntive magari postume.

    “Il Pd era nato su tre condizioni”, dice al Foglio Linda Lanzillotta che il Pd l'ha lasciato e che è stata in campo nell'estate 2005 anche per ragioni di famiglia (suo marito Franco Bassanini è stato una delle voci critiche rispetto alla scalata Unipol dentro i Ds), “primo per risolvere il problema con i socialisti europei, secondo per metter fine al collateralismo con il sindacato, terzo per metter fine al collateralismo fra politica ed economia”. Era questo il patto fondativo, aggiunge. E tuttavia non furono questi neppure i temi congressuali della sfida tra Bersani e Franceschini. 
    Per Nicola Rossi, invece, la questione politica è un'altra ed è a questa che rimanda al caso Serravalle: “La domanda è perché la provincia di Milano doveva comprare una tratta autostradale? Questo tema viene prima di tutto ,  prima della questione del prezzo” dice al Foglio. “Mette in subordine perfino se quei soldi siano serviti per la scalata Unipol… Bersani ha detto che anche in America ci sono autostrade pubbliche, ma la Milano-Serravalle lo era già”. La domanda è anche la prima delle dieci di Libero, ed è la stessa che da sinistra ha posto un altro fuoriuscito, Fabio Mussi. Per Nicola Rossi, che fu consigliere economico di D'Alema a Palazzo Chigi negli anni della scalata a Telecom, il tema è cruciale e l'occasione per rimpiangere le politiche liberal degli anni 90. “D'Alema aveva imboccato quella strada, anche l'opa su Telecom – sottolinea – fu un'operazione di mercato, ma i fatti successivi hanno fatto capire che era solo parte di una visione tattica e in ogni caso fu detta una frase di troppo… lodando non la regola ma gli scalatori. Il potere per essere autorevole ha bisogno di riserbo”.  Una lettura che nel Pd è confutata da Matteo Colaninno che eletto deputato nell'era Veltroni, protagonista all'epoca, ci tiene a ricordarlo: “La politica, D'Alema allora presidente del Consiglio, fu esemplare”.

    Il caso Serravalle così come la scalata di Unipol potrebbero essere, in una situazione diversa, temi di un dibattito programmatico sulle politiche economiche, attinenti alla questione se la politica possa essere uno dei contendenti in economia e le ricette si sa dentro il partito di Bersani sono diverse.
    Ma tutto è viziato dalla contingenza giudiziaria e destinato ad essere accantonato con essa. Anche questo come quello dell'Unipol è un fantasma perfino più antico che risale invece ai primi anni Novanta, a  quando i Ds uscirono dalla stagione di Mani pulite pensando di essere i traghettatori del capitalismo, che fosse arrivato un momento diverso. Lo storico Giovanni Sabbatucci rileva una certa fissità nella riproposizione dei temi di dibattito che arrivano dal caso Penati e dallo spettro di Unipol: “Questi scandali sono uguali o diversi da quelli degli altri? Siamo tutti uguali? E' una questione di sistema di finanziamento dei partiti? Di mele marce?”. Il dibattito sulla questione morale ruota sempre su questo genere di interrogativo. Eppure, aggiunge Sabbatucci, “è il quadro che è cambiato negli anni, non è più la Repubblica dei partiti e neppure il sistema di finanziamento con la legge sui rimborsi elettorali è più la stessa”. Eppure la tipologia dei reati contestati al centrodestra e la loro quantità alimentano il senso della differenza e la fiducia in un rapporto diverso con le procure. Ma anche questo alla fine è pericoloso, inibisce le spiegazioni. “Se non spiegano le cose restano”, osserva Sabbatucci. E alla fine magari sono politicamente meno eteree dei soliti fantasmi.