C'è del marcio (ma anche del nobile) nelle agenzie di rating

Michele Masneri

Le agenzie di rating americane vengono da Marte, quelle europee da Venere. Almeno a giudicare dagli avvenimenti di questi giorni: in primis le clamorose confessioni del veterano William J. Harrington, per 11 anni analista e vicepresidente di Moody's, che ha vuotato il sacco con una memoria di 78 pagine recapitata alla Sec, la Consob statunitense, che da mesi sta tentando di riformare il sistema. Il “cahier de doléances” di Harrington, ripreso dal Washington Post, è un attacco frontale a Moody's.

    Le agenzie di rating americane vengono da Marte, quelle europee da Venere. Almeno a giudicare dagli avvenimenti di questi giorni: in primis le clamorose confessioni del veterano William J. Harrington, per 11 anni analista e vicepresidente di Moody's, che ha vuotato il sacco con una memoria di 78 pagine recapitata alla Sec, la Consob statunitense, che da mesi sta tentando di riformare il sistema. Il “cahier de doléances” di Harrington, ripreso dal Washington Post, è un attacco frontale a Moody's: “Il primo conflitto d'interessi è che l'agenzia è pagata dagli stessi soggetti emettitori (banche e aziende) le cui emissioni si suppone che debbano essere analizzate oggettivamente dall'agenzia”, scrive Harrington. “Questo conflitto pervade ogni aspetto dell'operatività di Moody's, attraverso l'incentivazione di tutto il personale, inclusi gli analisti, affinché i clienti ottengano il giudizio che desiderano, onde evitare che questi si rivolgano ad altre più compiacenti agenzie”, spiega l'analista-pentito. L'agenzia si è difesa con un comunicato, riportato dal Washington Post: “Non possiamo sottolineare mai abbastanza la qualità e l'integrità del nostro processo di rating”, ha detto il portavoce Michael N. Adler, ma intanto il Julian Assange del rating non è stato ancora querelato. Altro caso dalle apparenze parecchio bellicose è quello che riguarda l'altra “grande” statunitense della triade del rating, Standard & Poor's: è stata appena annunciata, infatti, la defenestrazione del presidente Deven Sharma, e la sua sostituzione con un uomo proveniente da Citibank, il ceo della banca newyorchese Douglas Peterson. Si mormora che sia una mossa pilotata da Washington, come reazione al mai perdonato taglio della tripla A sul debito sovrano americano, arrivata proprio da S&P's.

    Chi non ha mai tagliato la pagella sui bond americani (e anzi nei giorni scorsi ha ribadito un giudizio tripla A) è Fitch, la più piccola della triade, che a differenza delle due consorelle non ha grandi intrecci proprietari alle spalle, ma un unico azionista di controllo, europeo e con una storia imprenditoriale romanzesca. Si chiama Marc Eugène Charles Ladreit de Lacharrière, ha 70 anni, è il numero 808 della classifica Forbes dei più ricchi a livello mondiale, venticinquesimo in Francia, con 1,1 miliardi di euro di patrimonio personale.

    Nato nel 1940 a Nizza, Lacharrière ha studiato al prestigioso liceo
    Condorcet, poi alla scuola della nomenclatura francese, l'Ena, dove vince il premio Robespierre (destinato ai migliori laureati) insieme con Jacques Attali nel 1970. Conquista il posto da dirigente al ministero del Tesoro, ma (unico caso che si conosca nella storia di Francia) rifiuta perché non vuol fare il passacarte. Entra quindi a Banque de Suez, allora tempio del capitalismo francese, con il grado più basso, quello di cassiere. Ma ha la passione per la bella vita ed è un giovane di charme: gira su una vecchia Bentley, esce con la cantante e attrice Françoise Hardy, recita per gioco una piccola parte in “Deux têtes folles” (“Insieme a Parigi”), film del 1964 con Audrey Hepburn e William Holden. E' simpatico, dicono, e invita i clienti a giocare a tennis al circolo del Polo, al Bois de Boulogne.

    Prima del rating, e insieme con le donne, la sua grande passione sono però i giornali: a 21 anni fonda un settimanale femminile, Mademoiselle; nel 1972 rileva una vecchia casa editrice, Masson, e la fa diventare leader europeo delle pubblicazioni scientifiche. Oggi invece è proprietario e direttore della Revue des Deux Mondes, antica e celebre rivista degli intellettuali della destra francese fondata nel 1829, e nel 2007 si era anche offerto di rilevare Les Echos.

    Nel 1976, nuova avventura: entra in L'Oréal e scala tutti i gradini fino a diventare vice amministratore delegato, nel 1991. In quell'anno nasce la decisione di mettersi finalmente in proprio: mette su la sua holding (Financière Marc de Lacharrière), quotata alla Borsa di Parigi, che raduna diverse attività: i giornali (Valeurs actuelles, Spectacle du Monde, Journal des Finances, Expansion), l'immobiliare, la chimica, il design. Ma il suo colpo di genio è l'acquisto di Fitch nel 1997: la fonde con la britannica Ibca, già di sua proprietà, poi con Algorithmics, società di analisi rischi. Nel 2000 incorpora anche Thomson Financial BankWatch. Nel 2006 capisce che è l'ora dei derivati e apre un branch specializzato, Derivative Fitch. La “piccola” ormai compete ad armi pari con Moody's e S&P's e oggi Fitch, di cui Fimalac controlla il 60 per cento, ha fatturato nel terzo trimestre 137,7 milioni di euro sui 174,3 di ricavi consolidati della capogruppo. Seduto su questo business anti crisi, Lacharrière oggi è parte integrante di tutti i salotti buoni della finanza francese: siede nel consiglio di L'Oréal, è presidente del comitato nomine di Renault, è membro del comitato consultivo della Banca di Francia. Tra i suoi amici di sempre ci sono nomi come Alain Minc, il numero uno della Bce Jean-Claude Trichet, l'ex presidente Jacques Chirac (di cui fu sostenitore), Antoine Bernheim. E' cavaliere di Gran croce (il grado più alto sotto quello del presidente della Repubblica) della Legion d'onore, e membro del super club dei potenti Bilderberg, di cui è capo della delegazione francese. Ma soprattutto è un frenetico benefattore: è uno dei più grandi sponsor del Louvre (di cui naturalmente siede nel board), è ambasciatore di buona volontà dell'Unesco; è presidente delThéâtre du Rond-Point, di France Museums e di una serie infinita di fondazioni culturali e di aiuto ai bisognosi.

    E soprattutto è anche uno dei firmatari di “Taxez-Nous”, l'appello lanciato sul settimanale di centrosinistra Nouvel Observateur da una serie di manager e imprenditori che, sull'esempio di Warren Buffett in America, chiedono al governo di poter contribuire maggiormente alla crisi. “Noi, presidenti, amministratori delegati, uomini e donne del mondo degli affari, finanzieri, professionisti e cittadini ricchi – si legge nel manifesto – sosteniamo la creazione di un contributo eccezionale che andrà ad interessare i contribuenti francesi più facoltosi”. Tra i firmatari ci sono Liliane Bettencourt, ereditiera dell'impero L'Oréal, il numero uno di Total Christophe de Margerie e il “pdg” di Société Générale, Frédéric Oudéa. Non poteva mancare il “benefattore” Lacharrière, su cui l'establishment francese conta anche per un'altra opera benemerita: mentre aumentano in questi giorni i timori che anche Parigi perda la tripla A sul suo debito pubblico, si confida che almeno il “gentiluomo del rating” e la sua Fitch mai si conformeranno a tanta bassezza.