Le scene fantozziane che hanno permesso a Pechino di battere Hollywood

Michele Masneri

A Pechino e Shanghai nessun problema di cinema chiusi, almeno in questa estate di grazia 2011, che vede trionfare il blockbuster annunciato “Fondazione di un partito” (in lingua originale “Jian Dang Wei Ye”), dove il partito naturalmente è quello Popolare cinese, di cui quest'anno ricorre il novantesimo anniversario. Il film, con un cast di 178 attori – tra cui nomi noti anche in occidente come John Woo, regista tra gli altri di “Face Off” e “Mission Impossible 2”, e qui invece attore – è il secondo capitolo di una saga iniziata nel 2009 con un altro cinepanettone alla cantonese.

    A Pechino e Shanghai nessun problema di cinema chiusi, almeno in questa estate di grazia 2011, che vede trionfare il blockbuster annunciato “Fondazione di un partito” (in lingua originale “Jian Dang Wei Ye”), dove il partito naturalmente è quello Popolare cinese, di cui quest'anno ricorre il novantesimo anniversario. Il film, con un cast di 178 attori – tra cui nomi noti anche in occidente come John Woo, regista tra gli altri di “Face Off” e “Mission Impossible 2”, e qui invece attore – è il secondo capitolo di una saga iniziata nel 2009 con un altro cinepanettone alla cantonese, “Fondazione di una Repubblica”, che ha incassato 61 milioni di dollari.

    Grande successo per un prodotto che secondo Variety rappresenta un nuovo trend cinese: pellicole sempre di propaganda (ancora utile in un momento in cui le scosse sociali proseguono), aggiornate però alla nuova identità semicapitalista cinese, e insieme puntano dirette al botteghino. Del resto “Cinacittà” ormai vale 1,5 miliardi di dollari l'anno, secondo le stime del governo nel 2015 supererà anche la Bollywood indiana. Certo, le regole del box office qui aiutano. Per assicurare la giusta accoglienza a “Fondazione di un partito”, il governo ha bloccato l'uscita di due colossal stranieri come l'ultimo Harry Potter e “Transformers 3”: le due pellicole americane sono state fermate alla frontiera e riammesse nei cinema solo all'inizio di agosto. Una mano l'ha data anche lo stesso partito, che secondo il Guardian ha comprato 100 mila biglietti per andare a vedere se stesso sul silver screen.

    Il governo farebbe dumping anche sui prezzi: secondo alcuni blog, il biglietto per vedere un'altra pellicola nemica del popolo, “Kung Fu Panda 2”, è di 15-25 yuan, mentre per vedere le gesta di Mao Tse Tung è di almeno 30 yuan; ma il ministero dell'Educazione paga per l'80 per cento dei suoi dipendenti, oltre a intruppare gli studenti delle elementari e delle medie a vederlo, forse con fantozziano “dibattito” finale. Del resto, come si conviene a un'economia pianificata, il successo commerciale è una variabile indipendente: la commissione governativa per radio cinema e tv aveva fissato un risultato di “almeno un miliardo di yuan”, cioè circa 154 milioni di dollari, e clamorosamente nelle prime tre settimane il film ha incassato proprio 150 milioni.

    Ma ci sono anche forti aperture occidentali: lo stesso Mao è interpretato, poco filologicamente, dal sex symbol Liu Ye, lo Stefano Accorsi cinese, protagonista del primo ruolo gay e del primo nudo frontale maschile del cinema cinese, sposato con la fotografa francese Anais Martane. Un modo per svecchiare l'immagine del Grande Timoniere, dicono. L'occidente partecipa poi anche finanziariamente: Shanghai Gm, la consociata locale di Gm, è sponsor principale, anche se la cosa ha suscitato critiche in America, dove i contribuenti che due anni fa hanno prestato 50 miliardi di dollari per il salvataggio di Detroit non sono molto contenti di vedere i loro soldi usati per eternare un Mao Tse Tung sexy e sbarazzino. Lo stesso che nel prequel, prima della presa di Pechino, avendo finito le sigarette e non trovando un tabacchi aperto, dice ai suoi: “I capitalisti ci servono ancora”. Battuta che gli storici considerano spuria.