I dolci inganni della generazione dei letterati Tq, dove T sta per tartufi

Matteo Marchesini

Per uno scrittore, ci sono due forme serie di “impegno”. Primo, schivare populismo e dandysmo, ricordando che senza un rigore stilistico capace di aderire castamente al proprio oggetto si dicono cose false. Secondo, riflettere sulla falsa coscienza che il suo lavoro, come ogni attività sociale, inevitabilmente comporta. Chi stende arringhe su mafia, guerra o corruzione, ma non ci spiega qual è il suo posto e la sua parte di responsabilità nel mondo; chi finge che la Parola se ne giri “povera e sola”, e non ci lascia capire come lo condizionino i media che usa – costui è un tartufo.

    Per uno scrittore, ci sono due forme serie di “impegno”. Primo, schivare populismo e dandysmo, ricordando che senza un rigore stilistico capace di aderire castamente al proprio oggetto si dicono cose false. Secondo, riflettere sulla falsa coscienza che il suo lavoro, come ogni attività sociale, inevitabilmente comporta. Chi stende arringhe su mafia, guerra o corruzione, ma non ci spiega qual è il suo posto e la sua parte di responsabilità nel mondo; chi finge che la Parola se ne giri “povera e sola”, e non ci lascia capire come lo condizionino i media che usa – costui è un tartufo. Ne siamo circondati. Non a caso trionfa una caricatura del peggior metellismo: si usano le tragedie sociali in chiave pittoresca, sovrapponendo retorica tribunizia ed estetismo. Certo, esiste poi l'impegno della persona in quanto tale: ciò che nelle nostre diatribe Goffredo Fofi chiama “pulire il culo alle vecchiette”.

    Ma questa è una cosa che si fa (o non si fa) e basta. Fingere di pulire il culo alle vecchiette mentre si battono al pc poesie o romanzi, saggi o drammi, è invece una cattiva azione: e sfociando in un linguaggio posticcio non emancipa affatto i lettori né li rende più civili, ma aggiunge idolo a idolo. Se i letterati italiani hanno un compito, è quello di riconoscere nel lavoro intellettuale una funzione universalmente umana, proprio mentre si impone la credenza che sia faccenda di ruoli e caste, di divi che usano l'“engagement” come strumento di autoaffermazione midcult.

    Il gruppo Tq – “trenta-quarantenni”, di cui ieri è stato presentato il manifesto – è l'ultimo sbiadito segno di questo clima. A partire dalla selezione mediatico-generazionale, cioè da un principio da cui è assente il pensiero, ma ben presente lo Spirito del tempo. Questi (ex) giovani evitano di compiere l'unico atto davvero “impegnativo”: l'autoanalisi dei criteri attraverso i quali un simile pseudosindacato si autoconvoca. Non diversi da quelli con cui si scelgono veline, anchorman o accademici à la page. Siamo sempre alla parodia editoriale delle poetiche civili del Novecento (che spesso erano già macchine pubblicitarie acchiappa-potere), o a minoranze che sono caricature delle odiate maggioranze.

    Credere di poter parlare politicamente “in quanto scrittori” vuol dire avere un'idea reazionaria e pompieristica del proprio status. Chi è onesto sa che si fatica ormai a condividere un linguaggio comune perfino con l'amico più empatico. Quindi, rifiutarsi di mostrare così com'è questa atomizzazione, coprendola sotto un generico programma tipo Unione, scritto da Veltroni e Vendola e corretto da Scalfari e i Wu Ming, è un'altra azione cattiva. Quando si dice di voler salvare la “cultura” bisogna dire quale: molti Tq hanno in mente i metellismi pubblicitari o i sedicenti sperimentalismi cui qualche professore offre fumosi alibi extratestuali. E che dire dell'accezione dozzinale in cui sono intesi termini come “neoliberismo”? Se si vuol discutere sul divario tra mercato e valore etico-estetico, troppo comodo indicare bersagli così vaghi. E' più facile nominare Berlusconi che i piccoli Gian Arturo Ferrari, i funzionari editoriali da cui concretamente dipende la posizione di molti Tq. Ecco allora l'ennesima corporazione. Gli scrittori non fanno categoria: e anzi come categoria dovrebbero sparire.