Le locuste dalle uova d'oro

Spregiudicati, snob e ricchi. Come nascono e chi sono gli speculatori

Ugo Bertone

Dagli allo speculatore, che fa rima con untore. Che si chiami Nathan Rothschild, il callido banchiere che, saputo per primo la notizia della vittoria di Wellington su Napoleone a Waterloo (da lui finanziata), si precipitò alla City per vendere, con il massimo clamore, i bond della Corona: i mercanti, convinti che Nathan fosse informato della sconfitta delle truppe di Sua Maestà, vendettero a piene mani, ignorando che a comprare, a prezzo di saldo, erano i galoppini di Rothschild.

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    Dagli allo speculatore, che fa rima con untore. Che si chiami Nathan Rothschild, il callido banchiere che, saputo per primo la notizia della vittoria di Wellington su Napoleone a Waterloo (da lui finanziata), si precipitò alla City per vendere, con il massimo clamore, i bond della Corona: i mercanti, convinti che Nathan fosse informato della sconfitta delle truppe di Sua Maestà, vendettero a piene mani, ignorando che a comprare, a prezzo di saldo, erano i galoppini di Rothschild. O che si chiami John Paulson, l'ex ragazzo del Queens che ha costruito, grazie alla crisi dei subprime, una fortuna che supera i 20 miliardi di dollari. Una fortuna realizzata grazie al suo hedge fund, Paulson & Co., e soprattutto all'intuizione che prima o poi quell'assurdo mercato immobiliare fondato sui mutui concessi ai poveracci sarebbe esploso trascinando con sé anche il mattone della classe media. Certo, non basta un'idea così per diventare ricco a palate scommettendo un po' contro tutto, dai debiti dei disgraziati alle azioni delle banche inglesi o raccattando i cocci di Lehman Brothers: una settimana fa, quando i liquidatori della banca fallita nel 2008 hanno risarcito i “piccoli risparmiatori”, hanno scoperto che Paulson aveva fatto incetta dei titoli quando valevano meno della carta straccia, alla vigilia del default. Il risultato? I fondi di Paulson hanno incassato 554 milioni di dollari cash. Un piccolo capolavoro, nel mondo del denaro, che porta anche la firma di un italiano. Già, l'intuizione di Paulson non si sarebbe tradotta in una valanga di quattrini senza le formule di un matematico di Roma, Paolo Pellegrini, che per anni ha studiato numeri e algoritmi per moltiplicare l'effetto “contrarian”. Il risultato? A Paulson i miliardi, a Pellegrini centinaia di milioni, che comunque gli hanno consentito di fondare un suo fondo, Spqr, sigla di Roma ma anche, in inglese, acronimo di “Paolo al quadrato”. Una favola a lieto fine? Mica tanto, perché i due, complice un'inchiesta della Sec, hanno finito per litigare. Non per soldi, ma per questioni di firma: tutti e due rivendicano la paternità del capolavoro “ribassista”, la pietra miliare che ha dato il via alla crisi più grave del capitalismo dal '29 in poi.

    Già, perché gli speculatori, alla fin fine, sono un po' narcisi, un po' artisti. E, più di tutto, dei veri snob che sanno anticipare le tendenze, salvo poi allontanarsene quando si diffondono tra le masse. E' capitato anche stavolta, nel cuore dell'“attacco all'Italia”, come con enfasi è stato etichettato dai media: gli sceriffi della Consob, a caccia dei “ribassisti”, gli orridi “scopertisti” che vendono senza possedere materialmente i titoli, ormai hanno già completato l'opera. Ora, a vendere, è il parco buoi (cioè quei piccoli speculatori che ci rimettono quasi sempre) o sono le banche di casa nostra, a corto di liquidità. Ma i Big, quelli che in primavera hanno confezionato prodotti sintetici a suon di Cds o Cdo strutturati sulla “spazzatura” in circolazione (titoli di stati dai bilanci barcollanti piuttosto che cartolarizzazioni della spesa sanitaria o di comuni in bolletta) stanno sulla riva a guardare. Il loro compito infatti si è già esaurito. Il gioco, pur complicato da tanta matematica, in sostanza è semplice: prima si comprano i Cds, cioè l'assicurazione sul rischio paese, che costa poco perché si acquista in un mercato non regolamentato da nessuno, poi si vendono a piene mani titoli di quel paese, meglio se i Btp. Così si innesca un ribasso che, a sua volta, provoca una frana sui titoli delle banche (piene di di Btp). A quel punto sono magari proprio i ribassisti a suggerire le ricette per ritrovare il cammino della virtù e dello sviluppo. Come fa George Soros, il principe degli speculatori che ama definirsi pensatore e scolaro prediletto di Karl Popper. Soros, ungherese di nascita, figlio di uno scrittore esperantista, uno dei pochi esseri umani che da bambino ha imparato a leggere e scrivere in esperanto, non si è fatto sfuggire l'occasione per suggerire all'Eurogruppo, via Financial Times, di “mettere a punto un piano B” che preveda un salto di qualità dell'Ue, altrimenti l'euro salterà.

    Parole sagge, come quelle rivolte a Italia e Gran Bretagna nel '92, dopo che le operazioni del suo Quantum Fund svuotarono le casse della Bank of England, impegnata in una suicida difesa della sterlina. O come quelle destinate a Boris Eltsin nel momento del collasso della nuova Russia. E così via, tra una crisi asiatica e un default in Europa, la tecnica è sempre la medesima: prima si fanno gli affari, poi si dispensano buoni consigli. Anche per questa aria da grilli parlanti gli speculatori non riscuotono, in genere, alcuna simpatia. Soprattutto gli “artisti”, quelli che disdegnano i facili rialzi di Borsa in cui pure i tassisti si ritengono dei piccoli Warren Buffett. Perché i veri speculatori sono ribassisti o shortist per natura, pronti a colpire dove l'edificio mostra qualche crepa. E' così da sempre, come dimostra la parabola di Enrico Cuccia, il maestro assoluto della piazza milanese, abilissimo nel raccogliere i cocci delle disavventure altrui. O come dimostrano i suoi allievi prediletti, a partire da Giorgio Corsi che fece le fortune della Montedison di Cefis negli anni del caro-petrolio. O come il mito della vecchia Piazza Affari, il “ribassista” Aldo Ravelli, maestro a sua volta di Sergio Cusani e Francesco Micheli, che così commentò la nascita della Consob: “Hanno aperto un convento nella portineria di un bordello”. Ravelli, cinico, disincantato ma generoso e rispettoso di un suo codice d'onore, capace di promettere una fortuna al kapò che lo protesse in campo di concentramento dov'era finito per aver protetto non pochi ebrei. E capace di rispettare la parola data in questo e in altri casi che gli valsero la galera per motivi meno nobili. A prima vista lui, che parlava il milanese, ha ben poco da spartire con i guru di Citadel o con gli scienziati di Renaissance, messi assieme da James Simon. Ma, tutto sommato, la stoffa è quella di sempre, che si tratti dell'understatement di Ravelli o del superego straripante di Davide Serra, gestore di Algebris, italiano che ha fatto fortuna a Londra con la finanza più innovativa e che ogni tanto scende in Italia, come accadde per le Generali, a sfidare l'establishment ufficiale. Da buon contrarian, antipatico il giusto. Ma con il compito ben fatto come un odioso primo della classe.

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