Così Wall Street si rassegna all'offensiva tedesca nella finanza

Ugo Bertone

Il grande sbarco delle truppe corazzate della finanza tedesca è avenuto giovedì alle 16, ora di Francoforte. A quell'ora, cioè le dieci del mattino a Manhattan, almeno il 50 per cento dei soci del New York Stock Exchange (Nyse), la Borsa di Wall Street da cui dipende anche la parigina Euronext, ha approvato la proposta di matrimonio con la Deutsche Börse, ovvero il listino teutonico governato da Reto Francioni.

    Il grande sbarco delle truppe corazzate della finanza tedesca è avenuto giovedì alle 16, ora di Francoforte. A quell'ora, cioè le dieci del mattino a Manhattan, almeno il 50 per cento dei soci del New York Stock Exchange (Nyse), la Borsa di Wall Street da cui dipende anche la parigina Euronext, ha approvato la proposta di matrimonio con la Deutsche Börse, ovvero il listino teutonico governato da Reto Francioni.

    Poi tutti sono corsi via, verso gli uffici: in garage aspettano gli autisti con il motore acceso di Mercedes, Audi e Bmw o Porsche, le ammiraglie d'ordinanza per gli eredi di Gordon Gekko; anche così si misura l'avanzata della corazzata tedesca nella corporate America. Del resto, quando lunedì partirà la consueta campagna dei conti trimestrali delle società americane, le telecamere della tv e di Internet inquadreranno il volto prussiano di Klaus Kleinfeld, il manager ex Siemens che ha rivitalizzato Alcoa, il colosso dormiente dell'alluminio.

    Insomma, prima la Nba, quest'anno dominata da Dirk Nowitzki, l'eroe tedesco dei Dallas Mavericks che ha ridicolizzato i miti di colore, poi lo strapotere del “made in Germany”, prima potenza mondiale nell'export. Ora, a completare il quadro, arriva la bandierina tedesca su Wall Street. Già, perché dalla fusione annunciata tra New York e Francoforte nascerà una Borsa, la più importante del pianeta, la cui maggioranza, il 60 per cento per l'esattezza, andrà a Francoforte. Sembra lo sbarco di Normandia alla rovescia. Meglio: una sorta di Pearl Harbor. Salvo che, a benedire per primo l'operazione, è stato proprio Michael Bloomberg, il sindaco della Grande Mela che a Wall Street ha cominciato a lavorare fin da ragazzino, come portaordini di Salomon Brothers. “E' un'ottima notizia per New York – ha detto – Ci garantirà una porta verso l'Europa mentre Londra non ha una finestra sull'America”.

    Già, meno di un paio di settimane fa il London Stock Exchange, che tra l'altro controlla la Borsa italiana, ha dovuto rinunciare al merger con Toronto, respinto dalle banche locali. Non è il primo affare che salta in questo 2011 che non porta nulla di buono ai listini: Singapore non ce l'ha fatta a sbarcare in Australia, Chicago è stato respinto in Europa. Ora il Nasdaq, l'indice dei principali titoli tecnologici della Borsa statunitense, ci prova con Londra; ma alla fine, dicono gli scettici, non se ne farà nulla.

    Anche la strada che porta alle nozze tra il Nyse, cioè Wall Street, e Francoforte, è ancora piena di insidie. Perché la vera partita, quella più incerta, si giocherà mercoledì 13 a Francoforte, a due passi dalle torri della Banca centrale europea. Perché il “merger” sia valido, infatti, occorrerà il “sì” del 75 per cento dei soci della Borsa tedesca (ieri eravamo poco sopra quota 11 per cento di “sì”). Impresa non facile, che ha costretto sia Francioni, che sarà il presidente del nuovo colosso finanziario, che il collega americano Duncan Niederauer (un nome che sembra fatto apposta per conquistare la fiducia oltre Reno), a far visita nelle ultime settimane a centinaia di investitori, sparsi un po' in tutto il mondo.

    Sembra incredibile, se si guarda alla storia. L'economia tedesca, che da sempre fa perno sulle banche, ha storicamente diffidato della Borsa: nel 1965, ai tempi del miracolo economico, il listino di Francoforte apriva due ore al giorno, più per far piacere agli “amici americani” che per reale necessità. Wall Street, al contrario, era (e resta) l'icona del capitalismo americano, il simbolo di un sistema dove ogni giorno ci si mette in competizione. A rigor di logica, insomma, dovrebbe essere Wall Street a far pesare i suoi quarti di nobiltà. I simboli, alla fine, contano, come dimostra il fatto che, tra le questioni ancora in sospeso c'è il nome della nuova entità: solo a settembre si saprà se l'insegna gloriosa del New York Stock Exchange scomparirà sotto un velo di senape. Ma l'arcano ha più di una spiegazione.

    Tanto per cominciare, Wall Street non è più quella di Gordon Gekko
    o anche solo quella del 2001, quando il presidente Richard Grasso, che si farà poi liquidare con 140 milioni di dollari, riuscì a evitare il panico sui mercati mentre le Torri Gemelle crollavano a poche centinaia di metri. Oggi solo un terzo dei profitti della Borsa deriva dallo scambio di azioni. Il resto è tecnologia pura, algoritmi che corrono sui cavi sensibili domiciliati a Mahwah, New Jersey, in stretto contatto con i pc di mezzo mondo. Non solo. La globalizzazione ha spiazzato le “vecchie” Borse ufficiali, a New York come a Milano. Ormai le grandi banche o i cervelli della finanza ombra preferiscono lavorare in quelle che, con sinistra metafora, sono definite le “dark pool”, le vasche opache dove corrono i derivati, i cdo o gli interest swap. Cioè tutto quel che crea profitti miliardari ma fa saltare i calcoli delle banche centrali. Alle povere Borse non resta che cercare la via delle intese, per limitare i danni.

    E qui torna utile la disciplina della grande Germania, capace di applicare alla finanza le geometrie della fabbrica. Intendiamoci, però: le bandiere ormai contano ben poco. Non solo perché dentro la Deutsche Börse la maggioranza è nelle mani dei fondi anglosassoni. Ma soprattutto perché il simbolo della finanza tedesca, Joseph Ackermann, numero uno di Deutsche Bank, è così “americano” da essersi meritato l'epiteto di “banchiere più pericoloso del mondo” da parte di Samuel Johnson, ex capo economista del Fondo monetario internazionale. Ackermann, come i suoi colleghi di Goldman Sachs o Jamie Dimon di JP Morgan, vuole che la sua banca macini utili a due cifre anche negli anni di crisi; non esita a litigare con frau Angela Merkel facendo presente alla cancelliera che “un mondo dove le banche rischiano zero, è un mondo che non cresce”. Ackermann, che la domenica la passa sui monti della natia Svizzera o girando per librerie sulla Quinta strada, quando (spesso) passa il week end nella sua casa che dà su Central Park. E' lui il generale della Wehrmacht finanziaria che fa rotta verso Wall Street. Ma attenzione: quando andrà in pensione, niente più facile che a succedergli sia il mago della finanza, attuale numero due della banca. Il nome? Anshu Jain, indiano d'origine e di passaporto. Uno che mastica qualche parola di tedesco. Sarà lui, forse, a guidare la panzer banca dalle torri di Berlino che vigilano sulla porta di Brandeburgo. Il mondo, insomma, è davvero cambiato.