Non ci sono più le copertine di una volta, Calvino è come Giordano

Matteo Marchesini

Poco tempo fa, lasciando scivolare lo sguardo sulla vetrina di una grande libreria bolognese, ho visto una macchia di colore che la mia mente ha identificato subito come una copertina attribuibile indifferentemente a un volume di Giordano o Ammaniti, Murgia o De Silva. Quella macchia disegnava un mezzo volto infantile incorniciato dal fogliame, con occhioni di vetro, ciuffo e lentiggini: era una di quelle innumerevoli icone da stilista o profumiere che vogliono “colpire”.

    Poco tempo fa, lasciando scivolare lo sguardo sulla vetrina di una grande libreria bolognese, ho visto una macchia di colore che la mia mente ha identificato subito come una copertina attribuibile indifferentemente a un volume di Giordano o Ammaniti, Murgia o De Silva. Quella macchia disegnava un mezzo volto infantile incorniciato dal fogliame, con occhioni di vetro, ciuffo e lentiggini: era una di quelle innumerevoli icone da stilista o profumiere che vogliono “colpire” evocando insieme purezza e oscurità, eleganza e strazio.

    Mettendola a fuoco, mi sono accorto che sopra c'era scritto: “Italo Calvino - Il barone rampante - Mondadori”. Calvino? Cosimo Piovasco di Rondò, avvolto in una confezione del genere? Forse è un diabolico contrappasso, per chi ha rimosso ogni retorica della Vita e ha dipinto anche la più torbida adolescenza come una limpida età infantile o adulta, anziché come la palude di mezzo che in effetti è (quelli di Calvino sono ragazzi ridotti a bambini saggi, il contrario di questo puer “adolescentizzato”).

    Comunque sia, attribuire al “Barone” una faccia simile significa compiere un altro passo verso l'identificazione tra libri e pubblicità. Davanti a quella vetrina, mi sono sentito molto più vecchio dei miei trent'anni. Se è vero che le grandi collane del Novecento ho potuto recuperarle solo da biblioteche e antiquari, è vero anche che ho fatto in tempo a veder bruciare in falò le tradizioni editoriali che quelle collane avevano creato. Chi è un po' più giovane di me quasi non ricorda i Garzanti ancora ruvidi, la serie azzurra di poesia ancora abbastanza attendibile da non accogliere i De Signoribus, e gli altri volumi ancora ben segnati dal marchio di fabbrica. Fino alla seconda metà degli anni Novanta, solo Stile Libero somigliava a una versione muta di Italia Uno, e non già il sessanta per cento degli Einaudi nazionali. Ricordo il momento in cui gli oblunghi libri bordò della Baldini, e quelli di Transeuropa, si sono arresi allo stilizzato burlesque dell'era minimum fax, che chez Cortina ha poi prodotto collane filosofiche non più da scrivania ma “da jogging”. Però forse non tutto il light viene per nuocere… O forse sì? Le brossure quadrate della Bompiani d'inizio Ventunesimo secolo erano così adorabilmente leggere da indurmi a comprare, con McInerney, perfino la Baresani.

    E che dire dei poeti Mondadori? Le loro voci stonate sono state coperte dalla progressiva metamorfosi del pompierismo marmoreo e ceralaccato dello Specchio, che dopo morbide astrazioni e trasparenze da decalcomania, esibisce ora sottovesti sgargianti da United Colors of Benetton (una collana in cui all'abito sgradevole corrisponde spesso un contenuto coerente, è invece quella delle Strade Blu). Tra tanti cambiamenti infragenerazionali, per forza ci si àncora poi al vintage Adelphi, al bianco più bianco Quodlibet o al linearismo Isbn, emblema dell'ascesi archeologico-poetica nella società di Google. Il peso “letterario” di dati estrinseci cresce a vista d'occhio: è normale, dopotutto si parla di industria del'immagine.

    Ma impressiona ancora vedere un Calvino “giordanizzato”: in quella copertina si riassume l'accelerazione definitiva di un processo forse inevitabile ma spudorato di cannibalismo. Sarebbe ora che qualche critico di robusta formazione sociologica si dedicasse a uno studio sui rapporti recenti tra “poetiche” e cucina editoriale. Oggi che questo processo si finge sempre più meccanico e bidimensionale, averne una visione prospettica diventa un'urgenza. Almeno per i pochi amanti di quell'ozioso svago che forse – sogno un'epoca mai vissuta – fu un giorno la letteratura.