Una sbronza d'acqua santa

Luigi Amicone

Dopo la 24 ore di euforia per la rasoiata che il raggiunto quorum referendario ha dato a Berlusconi e al suo governo, vorrei provare a spiegare perché, all'indomani del trionfo dei quattro “sì” referendari, i cattolici dovrebbero essere attraversati da un brivido di inquietudine piuttosto che accomodarsi con serenità sulla “macchina delle sberle”.

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    Dopo la 24 ore di euforia per la rasoiata che il raggiunto quorum referendario ha dato a Berlusconi e al suo governo, vorrei provare a spiegare perché, all'indomani del trionfo dei quattro “sì” referendari, i cattolici dovrebbero essere attraversati da un brivido di inquietudine piuttosto che accomodarsi con serenità sulla “macchina delle sberle” (per dirla con la bella espressione coniata dall'amico e direttore di Avvenire Marco Tarquinio) e rallegrarsi di una vittoria che, a parer mio, come cercherò qui di seguito di argomentare, mortifica la ragione e, sì, oso provare a dimostrarlo, la stessa dottrina sociale della chiesa.

    Cominciamo dall'oggetto in questione, il referendum. Persuaso che davanti a una chiamata alle urne per decidere in materie così delicate e importanti per la collettività – energia, acqua, giustizia – ci si debba comportare di conseguenza – cioè entrando nel merito dei quesiti proposti al giudizio dei cittadini – col mestiere che faccio parve ovvio informarsi, informare, capire, provare a convincere innanzitutto se stessi su quale fosse la cosa giusta da fare per essere poi in grado di comunicare le ragioni del nostro personale convincimento anche ai lettori, amici e concittadini. Alla fine di questo percorso, diciamo così, conoscitivo, nel quale ci siamo imbattuti in argomentazioni particolarmenti persuasive – cito per tutte le osservazioni di laici e riformisti come Franco Bassanini e Nicola Rossi – in linea di principio abbiamo concluso che se ci fossimo recati alle urne avremmo espresso quattro no. Sul primo, avremmo detto “no” perché il governo aveva già messo in mora il nucleare e, inoltre, non ci sembrava ragionevole impedire assolutamente all'Italia il ricorso eventuale e futuro, in situazioni di severa emergenza (già oggi gli italiani pagano una bolletta energetica che ha rincari che viaggiano alla media di 8-9 miliardi di euri l'anno), a una fonte che come ben sappiamo viene oggi utilizzata in quasi tutta Europa, che dalla Francia alla Slovenia cinge il nostro territorio con le sue centrali e la cui rinuncia definitiva non ci mette certo al riparo da eventuali casi Fukushima (per altro è di oggi la notizia che, nonostante Fukushima, il Giappone andrà avanti col suo programma nucleare). Sui due quesiti riguardanti l'approvvigionamento e la gestione delle risorse idriche avremmo siglato un duplice “no”, proprio per le ragioni addotte (e nei fatti negate dal loro “si” ideologico) dai difensori dell'acqua come bene pubblico e principio “non negoziabile”. Oggi la realtà della rete idrica italiana dice che la percentuale di acqua perduta sul totale di quella immessa nei nostri acquedotti è mediamente del 37 per cento, con punte che oscillano tra il 54-55 per cento negli acquedotti rispettivamente di Puglia e Sardegna e addirittura il 78 per cento nelle reti idriche del Verbano, Osio, Ossola.

    Chiarito che la legge Fitto-Ronchi ribadisce che l'acqua è e rimane un bene demaniale, cioè pubblico, e perciò tutti coloro che hanno diffuso la falsa opinione che si trattasse di un voto pro o contro “la privatizzazione dell'acqua”, o ignoravano i contenuti del contendere, oppure erano accecati da malafede ideologica (eventualità verso la quale siamo costretti a propendere visto che ci è difficile immaginare un politico, sacerdote, un vescovo, una suora, un intellettuale che non assuma informazioni adeguate prima di esprimere o comunque favorire pubblicamente un certo orientamento di voto), chiedo: cos'è più pubblico? Un servizio reso in esclusiva da uno stato inefficiente, o un servizio che indipendentemente da chi lo gestisce, sia esso privato o statale, garantisce l'efficiente captazione, la buona gestione e la non dispersione dell'acqua, “un bene di Dio” come lo chiamava Pierluigi Bersani quando non più di qualche mese orsono si dichiarava favorevole alla liberalizzazione della gestione delle risorse idriche? In ultima analisi è sulla base dei fatti che si dovrebbe decidere caso per caso cosa sia meglio fare a riguardo di un bene così importante come l'acqua. E i fatti dicono che, lungi dall'innalzare barricate ideologiche, si dovrebbe ricorrere ai privati piuttosto che allo stato o ai comuni o alle provincie o al vattelapesca, a seconda di chi meglio realizza e gestisce il servizio pubblico di approvvigionamento idrico. Nella dottrina liberale, di cui non sono esperto, forse ciò si potrebbe definire “correttivo pubblico di mercato”. Quello che so, però, è che secondo la dottrina sociale della chiesa ciò rappresenta un esempio di “sussidiarietà”, principio battezzato dalla “Rerum Novarum” di Leone XIII, ribadito dal magistero cattolico che arriva fino a Benedetto XVI, esplicitamente accolto nella Costituzione italiana (oltre che dal Trattato di Maastricht del '92) e secondo il quale, per dirla con l'enciclica “Quadragesimo Anno” (1931) di Papa Pio XI, “siccome non è lecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le loro forze e l'industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ne deriverebbe un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società poiché l'oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva (subsidium afferre) le membra del corpo sociale, non già distruggerle ed assorbirle”.

    Sul quarto quesito avremmo detto “no”
    sia perché la pronuncia della Corte costituzionale aveva già svuotato il dispositivo varato dal governo per “scudare” e quindi consentire l'attività di governo a coloro che il mandato popolare ha eletto per governare, sia perché siamo sempre più convinti della necessità di ristabilire in forme anche più radicali di quelle previste nell'ex articolo 68 della Costituzione il “primato” della politica, essendo poi anche persuasi del fatto che l'unica vera anomalìa italiana sia costituita dall'ormai quasi ventennale condizione di ricatto, paralisi e subalternità in cui versano i poteri legislativo ed esecutivo nei confronti di quello giudiziario.

    Chiarito ciò, abbiamo optato e raccomandato ai nostri lettori, amici, concittadini, l'astensione. Questo perché, di fatto, nelle parole dei leader dell'opposizione e nel tam tam dell'informazione (con qualche lodevole eccezione costituita non soltanto da questo giornale, ma da testate come Il Sole 24 Ore e Avvenire), il referendum è stato caricato di una evidente valenza politica pro o contro Berlusconi. Insomma, come si è visto all'indomani del voto, l'obiettivo era raggiungere il quorum e raggiungerlo per fare il pieno alla “macchina da sberle”. Che uno dei principali promotori del referendum, Antonio Di Pietro, abbia poi preso le distanze da questo impianto politico è una bella notizia, ma è pur sempre una notizia successiva (e probabilmente rispondente a ragioni tatticistiche) a quell'aria propagandistica che ha infuocato la campagna referendaria, come se alle urne si fosse trattato di decidere tra Repubblica (antiberlusconiana) e monarchia (berlusconiana).

    E vengo alle conclusioni, in parte già racchiuse nel ragionamento fatto sui quesiti referendari, che dovrebbero portarci a riflettere seriamente sulla “sberla” che forse anche i cattolici si sono autoinflitti con tanta ingenua baldanza (a meno che esista già “in sonno” un “partito di cattolici” che, con l'avallo della gerarchia, ha partecipato al referendum col consapevole ma inespresso intento di dare la spallata al governo di centrodestra: ma allora perché dissimularlo rivendicando una vittoria che sul piano dei contenuti referendari non c'è, non si capisce, non si vede rispetto al magistero e alla dottrina sociale della chiesa stessa?). Così, paradosso dei paradossi, ecco l'affacciarsi tonitruante di ruinismo rovesciato che sembra vedere culturalmente vincenti (ammesso che per cultura si intenda l'adesione a un certo mainstream dominante) le posizioni espresse da quel variegato e per molti versi confuso, secolarizzato e protestantizzato mondo cattolico afferente al cosiddetto “cattolicesimo democratico”. Da Famiglia cristiana a Noi siamo chiesa, dai terzomondisti di don Zanotelli ai pacifisti alla don Gallo, dal cristiano antipapista del Fatto al “cattolico di strada” di Vito Mancuso, dalla dossettiana Rosy Bindi al “giansenismo neopuritano” di Gustavo Zagrebelsky su Repubblica, tutto quel che s'è visto di mobilitazione in casa cattolica ha portato acqua alla divaricazione dal realismo e dalla razionalità contenuti nel magistero petrino e nella dottrina sociale cattolica. Non solo. Il fatto che anche nelle associazioni e nei movimenti cattolici più autorevoli, vivaci e popolari, siano riemerse opposte valutazioni e tendenze (dall'Azione cattolica che ha rivendicato come un successo il fatto che “i cattolici sono stati determinanti” nell'esito dei referendum, a noi di Cl che in un volantino successivo alle elezioni amministrative abbiamo invitato “ad essere meno ingenui sul potere salvifico della politica”), la dice lunga sul quadro di un cattolicesimo oscillante tra l'entusiasmo per il “vento di cambiamento” e la tentazione di ritrarsi, per un reale o temuto “rischio utopia”, da un presidio culturalmente avveduto della scena pubblica.

    A questo punto noi non sappiamo se la proposta lanciata da Antonio Socci di ricostituire un Movimento popolare, strumento a cui persone di Comunione e liberazione (Roberto Formigoni in primis) diedero avvio negli anni Settanta e che in seguito, nell'epoca giovanpaolina e ruiniana fu elemento di attrattiva e unità di giudizio per tanto mondo cattolico, abbia oggi un senso non artificioso e non ideologico. Però ci rendiamo conto che, a fronte della situazione non proprio eccellente (come invece sembra la percepiscano tanti nostri amici) in cui versa l'espressione pubblica, civile, culturale, della mi si passi il termine “personalità cristiana”, qualcosa bisogna pur immaginare, pensare, strumentare. Logiche antiche alla padre Bartolomeo Sorge sulla “ricomposizione del mondo cattolico”, sono logiche morte, lo so. Però almeno conviene prendere atto che c'è ben poco di cui rallegrarsi, quando tutto d'un tratto ci si scopre tanto euforici per “il vento del cambiamento” mondano piuttosto che il cristiano “ricominciare da Uno” (come direbbe un famoso titolo del Sabato di don Giacomo Tantardini, anni dopo che, all'indomani della durissima sconfitta referendaria sull'aborto, Il Sabato di Bartolomeo Sorge aveva confidato di “Ripartire da 32”, prendendo a base di riscossa il 32 per cento di elettori che avevano votato “no”).

    Bisogna forse prendere atto
    che il deserto proprio non si arresta e che ciò che salva dal deserto è un punto di vista fuori dal deserto. Ma che si oppone attivamente e non dissimula né si ritrae dal deserto. Giacché, come aveva auspicato Antonio Gramsci nel suo Ordine Nuovo, coscienti o no, l'alternativa è assecondare il processo di desertificazione per cui “il cattolicesimo democratico fa quello che il socialismo non potrebbe fare: amalgama, ordina, vivifica e si suicida… Non vorranno più Pastori per autorità, ma comprenderanno di muoversi per impulso proprio: uomini che spezzano gli idoli, che decapitano Dio”.

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