Il teorico del sessantanove

Guido Vitiello

Ci sono quelli che hanno fatto il Sessantotto e quelli che hanno fatto il Sessantanove, diceva Alberto Arbasino, ed è una distinzione che mette in chiaro molte cose. Serge Gainsbourg apparteneva alla seconda categoria. Le barricate del maggio parigino preferì seguirle in televisione da una stanza dell'Hotel Ritz perché, confessò, lì almeno c'era l'aria condizionata. Ma non disertò l'avvento dell'anno successivo, il 1969 appunto, e anzi volle salutarlo cantando a duetto con la sua nuova fiamma Jane Birkin la benaugurante “69 année érotique”.

    Ci sono quelli che hanno fatto il Sessantotto e quelli che hanno fatto il Sessantanove, diceva Alberto Arbasino, ed è una distinzione che mette in chiaro molte cose. Serge Gainsbourg apparteneva alla seconda categoria. Le barricate del maggio parigino preferì seguirle in televisione da una stanza dell'Hotel Ritz perché, confessò, lì almeno c'era l'aria condizionata. Ma non disertò l'avvento dell'anno successivo, il 1969 appunto, e anzi volle salutarlo cantando a duetto con la sua nuova fiamma Jane Birkin la benaugurante “69 année érotique”. Il 45 giri uscì a febbraio. A marzo dell'“anno erotico”, appena un mese più tardi, sul paginone centrale di Playboy si poteva ammirare una ventiduenne del New Jersey di nome Kathy MacDonald, una bionda tutta lentiggini e frangetta morbidamente adagiata su un lenzuolo giallino disseminato di fumetti di Dick Tracy e di Charlie Brown. A Gainsbourg sarebbe piaciuta, non c'è dubbio, e con lui a tutta l'allegra brigata del Sessantanove. Ma per gli adepti del Sessantotto quella dea dell'abbondanza sorridente e rotondetta con la sua cornucopia di comics e rotocalchi era l'incarnazione di tutto quel che dicevano di combattere, una Circe insidiosa e maliarda sulle rotte dell'Ulisse rivoluzionario.

    Il caso vuole che quello stesso numero di Playboy ospitasse anche una sterminata intervista a Herbert Marshall McLuhan, l'uomo che più di ogni altro era riuscito a rendere intellettualmente sexy, se così si può dire, i prodotti dell'industria culturale – e che ne era stato ricambiato dal mensile per soli uomini con la consacrazione a “high priest of popcult”. Il Sessantotto, il conservatore McLuhan proprio non lo aveva fatto. E il Sessantanove? Qui dipende dai punti di vista e dalle cabale. Sappiamo che morì a 69 anni, nel dicembre del 1980, e il suo biografo Philip Marchand ci informa che per decidere se un libro meritasse o meno di esser letto aveva la curiosa abitudine di ispezionarne una sola pagina, la 69 appunto. Se però vogliamo considerare il sessantanove come una traduzione, in termini di ginnastica erotica, dell'antico principio ermetico secondo cui “ciò che sta in alto è come ciò che sta in basso, e ciò che sta in basso è come ciò che sta in alto”, allora possiamo sostenere (con rispetto parlando) che l'impresa di McLuhan è stata una spettacolare e acrobatica mossa da Kamasutra intellettuale, un ricongiungimento tra l'alto e il basso della cultura, tra le strisce dei Peanuts e il “Finnegans Wake” di Joyce.

    Il suo primo sessantanove lo praticò con una sposa meccanica. Ma prima che il lettore pruriginoso chiami la buoncostume e gli eredi di McLuhan ci citino in giudizio, dobbiamo chiarire che non si tratta di un attrezzo da sex shop: è un libro del 1951 intitolato appunto “The Mechanical Bride”, un saggio sul “folklore dell'uomo industriale”, tutto pieno di fumetti e di pubblicità, che valeva da solo i “Minima moralia” di Adorno e le “Mythologies” di Roland Barthes. Al pari di Adorno, McLuhan procedeva per arbitrii, oracoli e aforismi che finivano per suonare paradossalmente come slogan pubblicitari, ma a differenza del francofortese non dava l'aria di prendersi troppo sul serio, e più che lanciare sentenze perentorie come epigrafi tombali faceva salire al cielo i suoi ballon d'essai: li chiamava probes, sonde. Come Barthes, era in grado di spremere verità e illuminazioni dalla semplice pubblicità di un detergente (cambiano solo le marche: Lysol per McLuhan, Persil e Omo per Barthes), ma la polpa delle sue intuizioni non arrivava al lettore corazzata dall'indigesto esoscheletro del gergo semiologico: al contrario, aveva cura di rivestirla di giochi di parole, di arguzie, di un linguaggio che convertiva in chiave pop il modernismo di Joyce, Eliot e Pound. Le sue pagine, a colpo d'occhio, possono ricordare dei calligrammi, delle tavole parolibere, dei collage dadaisti o dei rotocalchi illustrati: tutte forme che d'altro canto considerava imparentate, già che mandavano gambe all'aria l'ordine sequenziale del libro, l'astro al centro della “Galassia Gutenberg”, come recita il titolo della sua grande opera del 1962.
    Ma torniamo ai nostri saponi, e alla réclame del detergente Lysol. “Perché tutto questo isterismo da raduno religioso a proposito dell'igiene personale?”. La risposta, fulminante, cadeva due pagine dopo: “Il mondo puritano non ha fatto altro che sostituire il sapone al confessionale”. Dopodiché, tra citazioni di D. H.

    Lawrence e di Jonathan Swift, di Lewis Mumford e di Margaret Mead, di inni ugonotti (“Tutti puzzano fuorché Gesù”) e di fumetti dei supplementi domenicali, giungeva alla conclusione che “è proprio la nostra ossessione cloacale che produce gli isterici messaggi pubblicitari riguardanti l'igiene: il paradosso in questo caso assomiglia al ricorrere ossessivo di temi di morte e di strage nei rotocalchi, da un lato, e al netto rifiuto di affrontare la morte nel salone dell'impresario di pompe funebri, dall'altro”. Nel culto asettico dell'igiene è implicito un disgusto per il corpo e la materia: questo puritanesimo da toletta, insomma, ripudia l'incarnazione. E agli occhi di McLuhan, che si definiva “un tomista per il quale l'ordine sensoriale risuona con il Logos Divino”, questo era il supremo peccato contro lo spirito. Si fece cattolico, si può dire, per amore del mondo: “La mia sete di verità era sensuale in origine”, scrisse in una lettera alla madre Elsie nel 1935, all'alba della conversione, quando aveva poco più di vent'anni ed era uno studente balzato a Cambridge dal Canada, dove era nato nel 1911. Se aveva deciso di rinnegare il pur blando protestantesimo della sua educazione, è perché la religione cattolica è la sola che “scende a patti con i termini che le nostre sette hanno odiato e hanno designato con brutti appellativi – come ‘carnale' che è squisitamente vicino a ‘carnaio'”.

    A salvarlo dalle saponette dei puritani, che certo non avevano fatto né il Sessantotto né il Sessantanove, era stato però Gilbert Keith Chesterton, lo scrittore e polemista cattolico che segnò la conversione di McLuhan alla chiesa di Roma: un maestro corpulento quanto basta da esser piantato saldamente nel mondo della carne e dei sensi, non foss'altro per ragioni elementari di gravitazione (difficile, con quella stazza, favoleggiare di angelismo). “Se non avessi incontrato Chesterton sarei rimasto agnostico almeno per molti anni”, confessò McLuhan. Un anno prima della morte, avvenuta nel 1936, se lo era visto comparire in una cena organizzata a Cambridge dalla Distributist League: “Bene, G.K. Chesterton era a cena! Lo avevo visto in fotografia, avevo udito la sua voce e avevo meditato sui suoi pensieri, e sapevo che cosa aspettarmi. Non avevo previsto tuttavia quegli occhi azzurri e guizzanti e quei suoi lineamenti così marcatamente raffinati”, raccontò in una lettera tutta eccitata alla famiglia. “La sua corporatura è notoriamente imponente. E' alto un metro e ottantadue ed è molto più robusto (all'equatore) di quanto non sia largo di spalle, o altrove. La sua non è una vocina acuta ma nemmeno possente. Si tiene abbastanza eretto quando è in piedi – si muove per forza lentamente, e, poiché si tratta di Chesterton, dà un senso di munificenza, di notevole umorismo, di tolleranza e di dignità non indifferente alla necessità che la natura gli ha imposto”.

    Il primo articolo di McLuhan, allora promettente critico letterario, si intitolava “G.K. Chesterton: A Practical Mystic”, e apparve nel gennaio del 1936 sulla Dalhousie Review. E fu sempre Chesterton a fargli comprendere e amare fino in fondo un altro omone così ben piantato su questa terra che i suoi compagni d'università lo canzonavano chiamandolo il Bue muto: Tommaso d'Aquino. “La filosofia di San Tommaso si basa sull'universale convinzione comune che le uova sono uova”, aveva scritto Chesterton. Se per l'hegeliano l'uovo è in realtà una gallina in quanto parte del processo continuo del divenire, se per il berkeleyano le uova in camicia esistono solo come esiste un sogno, se il pragmatico s'interessa solo di uova strapazzate, per il tomista le uova sono “cose attestate dai sensi, che vengono da Dio”. E McLuhan in tutta la sua opera non ha parlato d'altro che di sensi, di percezione e consapevolezza del mondo, del corpo umano e delle tecnologie che ne sono l'estensione: la clava estende il braccio, la ruota il piede, la parola il pensiero, gli abiti la pelle, fino alle tecnologie elettriche ed elettroniche che estendono il sistema nervoso centrale trasformando la terra in un cervello palpitante percorso da impulsi che guizzano in ogni direzione. Ogni nuova tecnologia cambia il nostro modo di essere al mondo e di percepirlo: “il medium è il messaggio”, recita la sua formula arcinota. L'idea che le tecnologie siano estensioni dei sensi non era nuova (serpeggiava già, negli stessi termini e perfino con gli stessi esempi, in certe filosofie della tecnica tedesche del secolo precedente). Nuova era però la girandola di implicazioni che McLuhan ne faceva vorticare: la storia della civiltà era riletta come un campo di battaglia dove le tecnologie lottano per ottenere la primazia sul nostro sensorio, squilibrandolo ora nell'una ora nell'altra direzione. Tutto cambia, per esempio, se a dominare è l'occhio o l'orecchio: la Grecia omerica è avvolta dal potere incantatorio della parola parlata, tanto che Ulisse deve legarsi all'albero maestro per non soccombere al canto delle sirene; con la scrittura alfabetica e la stampa, però, sono le sirene dell'oralità a finire incatenate tra le pagine di un libro: le parole si lasciano esplorare docilmente tramite il senso distanziante della vista, ad opera di un lettore sempre più secolarizzato e individualista; la radio e la tv rimettono in libertà le sirene, e segnano un nuovo trionfo dell'orecchio sull'occhio.

    Quel che vale per la storia delle civiltà vale per la storia delle religioni – e la cosa, a ben vedere, riguarda da vicino la scelta di McLuhan tra il Papa e Lutero. Il protestantesimo era figlio, a suo dire, della stampa a caratteri mobili, che aveva esasperato il culto del Libro. Quali eresie avrebbe prodotto l'era elettronica? In una lettera del 1969 a Jacques Maritain, McLuhan suggeriva che “proprio come il clero cattolico defezionò nell'era di Gutenberg sulla base dell'illusione di una luce interiore, un numero ancora superiore probabilmente defezionerà con l'attrazione mistica della luce elettrica”. I media elettronici, che connettono tutto con tutto, danno l'illusione del mondo come invisibile comunione spirituale: “Si tratta di un ragionevole facsimile del corpo mistico, di una manifestazione evidente dell'Anticristo. Dopo tutto, il Principe di questo mondo è un grande ingegnere elettrico”. Se ai tempi della stampa i cristiani rischiavano di divenire fanatici del Libro, oggi la tentazione è quella di farsi adoratori di una sorta di anima mundi elettromagnetica: ecco perché ci si volge all'oriente e alle sue filosofie.

    Bastano questi pochi cenni a sgombrare il campo dal pluridecennale equivoco suscitato dall'altra celebre formula di McLuhan, il “villaggio globale”. Lo si gabella per un sogno di fratellanza universale, una fantasia hippy partorita sotto allucinogeni, una visione sdolcinata alla “Imagine” di John Lennon (i due, peraltro, morirono a pochi giorni di distanza), ma per McLuhan il villaggio globale era una constatazione, certo spericolata, ma sgombra da giudizi di valore: era il ritorno, per via elettronica, a una civiltà orale e tribale, stavolta su scala planetaria. E villaggio globale vuol dire cantastorie globali, commari globali, pettegolezzi globali, guerre tribali globali – tutto il bene e il male che possono esserci in quel luogo di promiscuità coatta. Ma come si è arrivati a prender fischi per fiaschi, a scambiare il global village per un sogno irenico da età dell'Acquario? Forse la risposta è più semplice di quanto si creda: Chesterton.

    Dall'autore di “Ortodossia” McLuhan mutuò il tono della sua fede e, quel che più conta, della sua persona pubblica. Era il tipo antropologico del cattolico ridens, del tomista allegro, tutto umorismo, sprezzatura cavalleresca e meraviglia per le cose di questo mondo. Insomma, la risposta vivente a un'osservazione crucciata di Nietzsche, che si chiedeva come mai i cristiani non avessero “un aspetto più da gente salvata”. Fu probabilmente la letizia di McLuhan, così diversa dalle facce lunghe e dai labbrucci atteggiati a disgusto di certe prefiche marxiste, a farlo apparire come un ottimista un po' gonzo o come il tipico nordamericano che va in solluchero per i nuovi giocattoloni tecnologici. Specie agli occhi di quelli che, nella distinzione di Arbasino, avevano fatto il Sessantotto. Guy Debord, l'autore di quella “Société du spectacle” che è diventata uno dei vangeli minori dell'intelligenza di sinistra, trattava McLuhan come lo scemo del villaggio globale, il “primo apologeta dello spettacolo, che sembrava l'imbecille più convinto del suo secolo”; Enzensberger, che lo lesse e non ci capì un tubo, lo liquidò in un saggetto poliziesco: era il ventriloquo e profeta dell'avanguardia apolitica, un imbonitore da fiera incapace di qualsiasi teorizzazione, e la formula “il medium è il messaggio” significava che la borghesia “non ha più nulla da dire” (sic). Umberto Eco, disponendo nella sua valle di Giosafat i pupazzetti degli apocalittici e degli integrati, i profeti di sventura e gli apologeti della società dei consumi, elesse McLuhan a modello dell'iperintegrato pentecostale, affetto dalla sindrome dell'“Egloga Quarta”, megafono dell'età dell'oro.

    Era una cantonata bella e buona. “Non sono mai stato un ottimista o un pessimista. Sono solo un apocalittico”, aveva detto McLuhan in un'intervista. Ma non lo intendeva certo nel senso di Eco, e anzi detestava quei cristiani cupi che mescolano Spengler e Adorno con Giovanni di Patmos e ci dicono che tutto va a rotoli: “L'Apocalisse non è la desolazione. E' la salvezza. Nessun cristiano può esser mai ottimista o un pessimista: quelli sono stati mentali puramente secolari”. Nel suo saggio su Chesterton, non per caso, lo aveva definito “un mistico pratico per il quale l'esistenza ha un valore del tutto inesprimibile, e assolutamente superiore a qualunque argomento per l'ottimismo o il pessimismo”. L'ottimismo di McLuhan era escatologico, dunque poteva comporsi antinomicamente con il pessimismo più nero, e chi legga a fondo la sua opera troverà argomenti per entrambe le persuasioni, in un continuo ed esasperante sic et non. La sua fede nel non praevalebunt era ben salda (“La chiesa cattolica non dipende, per la sua sopravvivenza, da una saggezza o strategia umana. Le migliori intenzioni del mondo non saprebbero portarla in rovina”), ma ci teneva a ricordare che questa cattedrale inespugnabile era pur sempre nata da un gioco di parole, da un pun, da una battuta di spirito: “Tu es Petrus et super hanc petram”…

    In questa bouffonnerie sta il paradosso di McLuhan: uno dei grandi eruditi del suo tempo è stato anche l'animatore di un cabaret intellettuale permanente, che si divertiva a giocare la parte del pazzo in tv, lanciava libri-collage sempre più eccentrici, compariva su Playboy in buona compagnia di Kathy MacDonald. Lo si vide perfino in “Annie Hall” di Woody Allen, dove sbucava d'improvviso nella coda di un cinema per sbugiardare un massmediologo presuntuoso. Che fosse solo un buontempone o un vanitoso in cerca di gloria? Qualcuno lo crede. Ma chissà che la chiave non sia nella vecchia idea di Maritain secondo cui il cattolico dev'essere antimoderno e ultramoderno, combinare le due esortazioni contraddittorie di san Paolo, quella a non conformarsi alla mentalità di questo mondo e quella a “farsi tutto con tutti”, diventare giudeo con i giudei, gentile con i gentili, televisivo con i telespettatori. E' solo una congettura, ma è certo che sulla lapide di McLuhan, all'Holy Cross Cemetery di Thornhill, Ontario, la sentenza evangelica “The truth shall make you free” (la verità vi farà liberi) campeggia in caratteri digitali come su un display.