Ecco che cosa continua a non funzionare nei pessimi rapporti tra il governo e la Banca d'Italia

Ernesto Felli e Giovanni Tria

In occasione dell'Assemblea della Banca d'Italia dell'anno passato, c'eravamo resi conto, annotandolo in questo diario, che oramai questo tradizionale appuntamento annuale era la realizzazione di un tacito ma lampante paradosso: un “quasi-governatore” che propone le sue considerazioni finali ad un “quasi-governo”. Il paradosso dipende dal fatto che, da un lato, il governatore della banca centrale nazionale non controlla più la politica monetaria (tassi e liquidità), e, dall'altro, il governo ha una discrezionalità limitata sulla politica di bilancio (tasse e spesa).

    In occasione dell'Assemblea della Banca d'Italia dell'anno passato, c'eravamo resi conto, annotandolo in questo diario, che oramai questo tradizionale appuntamento annuale era la realizzazione di un tacito ma lampante paradosso: un “quasi-governatore” che propone le sue considerazioni finali ad un “quasi-governo”. Il paradosso dipende dal fatto che, da un lato, il governatore della banca centrale nazionale non controlla più la politica monetaria (tassi e liquidità), e, dall'altro, il governo ha una discrezionalità limitata sulla politica di bilancio (tasse e spesa).

    Il paradosso contiene un certo grado d'estremizzazione (e anche un bel po' di semplificazione semantica e logica), ma serve a sottolineare che gran parte delle leve delle politiche di stabilizzazione macroeconomica sono ormai sotto un comando sopranazionale, e che la capacità d'incidere del governo nazionale dipende, in parte, da quella d'influenzare le decisioni sopranazionali. Nell'ambito del governo italiano, questo paradosso, e l'estremizzazione che contiene, è stato, per la verità, sfruttato a pieno per imporre la disciplina di bilancio saltando la negoziazione politica e l'articolazione complessa di misure condivise che ciò avrebbe comportato – e che, come sappiamo, si è tradotta nella strategia dei tagli di spesa cosiddetti “lineari”, cioè uniformi. La ratio, trasformata in mantra, di questa strategia era: “Ce lo impone/chiede l'Europa”.

    Un anno dopo, e cioè oggi, il tradizionale appuntamento dell'Assemblea della Banca d'Italia ha fornito una variante del paradosso, giacché è stata l'occasione nella quale un governatore nazionale che si appresta a dirigere davvero la politica monetaria sopranazionale  si è rivolto in modo più esplicito del passato al governo nazionale. Al quale ha ricordato che non può limitarsi ad essere un “quasi governo”, mero esecutore di una disciplina di bilancio decisa (contrattata?) altrove, se non altro perché questa stessa disciplina di bilancio può essere perseguita solo nell'ambito di una strategia di crescita, peraltro anch'essa richiesta a livello europeo. 

    Questa interdipendenza era nota da un pezzo, tanto da essere diventata a sua volta un ritornello, e lo stesso Draghi l'aveva sottolineata più volte. E' anche poco più di un'ovvietà, che tuttavia è bene sempre ripetere, l'osservazione che la maggiore crescita non può che essere il risultato di un aumento della produttività di tutti i fattori produttivi, e il ritardo accumulato in questo campo è il principale problema italiano. A questa ovvietà si può certamente affiancare l'ulteriore ovvietà che l'aumento della produttività - da cui derivano minori costi per unità di produzione, maggiore competitività internazionale, più alti salari e quindi anche maggiore domanda interna - non può essere ottenuto per decreto, ossia essere il frutto di un qualche provvedimento governativo specifico.

    E tuttavia l'ex-quasi-governatore e neo-governatore a pieno titolo ha puntigliosamente ricordato al governo ciò che è di competenza del governo e che ha effetti sulla produttività e competitività complessiva del sistema e quindi sul tasso di crescita del pil. I tagli della spesa corrente, che devono essere maggiori, indipendenti dalla spesa storica, ma non indiscriminati, anzi basati sulla ricerca dell'efficienza nell'azione del settore pubblico. La riduzione delle aliquote delle imposte dirette, che deve essere resa possibile da tali tagli di spesa. In altri termini, la riforma del fisco. Il federalismo fiscale, che implica una riduzione dei tributi centrali se si vogliono introdurre tributi locali. Di nuovo, la riforma fiscale. Il dissesto della giustizia civile, che pesa forse per un punto di pil. Il sistema inefficiente dell'istruzione, anch'esso pesa sul tasso di crescita. La carenza di infrastrutture, che non tollera la diminuzione degli investimenti pubblici pena la riduzione della produttività anche del settore privato e quindi del tasso di crescita. L'incapacità di spendere e spendere bene sia le risorse nazionali sia, e soprattutto, le risorse europee.

    Affrontare tutto ciò spetta, in effetti, al governo nazionale. Non sono i vincoli di bilancio ad ostacolare l'azione, e si presuppone che non siano necessari altri studi, dopo decadi di riflessioni e approfondimenti. Ciò che è necessario è superare il paradosso del quasi-governo e la sindrome in cui si è trasformato.
    "Un principe saggio, quando se ne presenti l'occasione, deve crearsi con astuzia qualche nemico per sconfiggerlo e acquisire così maggior grandezza". È sembrato ad alcuni osservatori che il governo ed il suo leader si siano dedicati a queste elezioni amministrative fraintendendo non poco questo suggerimento machiavellico. Che prescrive la vittoria, non certo la sconfitta, sul nemico posticcio. Tanto che qualcuno ha suggerito che, in realtà, Berlusconi si sia fatto sconfiggere dal proprio doppio, sfuggitogli di mano. Di certo un errore fatale. Al quale sarebbe il caso, per il bene di tutti, di rimediare cambiando decisamente rotta. Provando a divenire il capo di un ex-quasi-governo.