Che fare, cosa non rifare/ 10

Ci hanno rubato anche lo stile del berlusconismo

Luigi Amicone

Per cominciare a capire di cosa stiamo parlando al cospetto dei festeggiamenti da Champions League visti ieri sera prospicienti il Duomo di Milano, andiamo su google, digitiamo “Paolo Limonta” e leggiamo il primo blog che ci compare sulla schermata.

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    Per cominciare a capire di cosa stiamo parlando al cospetto dei festeggiamenti da Champions League visti ieri sera prospicienti il Duomo di Milano, andiamo su google, digitiamo “Paolo Limonta” e leggiamo il primo blog che ci compare sulla schermata. “Si potrebbe dire in premessa: sono un elettore di centrodestra. Macerato da molti dubbi, poche certezze e con il naso tumefatto da molte forse troppe ‘turate da voto' stasera ho guardato la trasmissione ‘L'Infedele' e ho capito perché Pisapia ha vinto. Ho ascoltato un signore a me sconosciuto, Paolo Limonta maestro elementare e amico intimo di Pisapia nonché (credo) uno dei suoi principali organizzatori della campagna elettorale. Una persona pacata, per nulla arrogante, perfino modesto nella vittoria ma chiaro nell'esposizione delle sue idee e semplice nell'analisi politica, insomma mi è piaciuto molto. Se questa è la squadra di Pisapia, allora ha vinto la squadra migliore”. Ecco tutto.

    Il berlusconismo nascente questa volta l'hanno interpretato gli avversari. Lo slancio vitale del sorriso, del positivo e finanche dell'amore, tipici del cromosoma berlusconiano, questa volta lo hanno rappresentato, e bene, gli avversari del Cavaliere. E benché gli arancioni di Milano non siano in tutta evidenza né l'Olanda di Cruijff né l'Ucraina della Timoshenko, la terapia del colore del famoso conto bancario “zero spese, massima libertà”, è stata azzeccata per soprassedere almeno per un attimo al rosso rugginoso Fiom e al viola porta sfiga Idv di un cartello di funzionariato partitico di cui il Pd è la magna pars meno influente. Insomma, grazie a un centrodestra capace di una collaborazione suicida esemplare, la campagna pro Pisapia è stata lineare nel titillare emozioni, rimpianti, ovvi maldipancia sulla difficile congiuntura socio-economica. E, infine, perfetta nel sedare ogni curiosità programmatica. E poi che “pezza”, come dicono i giovani, questa Moratti.

    Insomma, quando mia figlia insieme ai tanti amici e ragazzi di Cl si sono messi per strada a marcare coetanei, donne, vecchietti e spiegare loro le differenze programmatiche dei due candidati su vita, famiglia, educazione, sussidiarietà eccetera, ce n'è voluta di fatica per richiamare l'attenzione e l'intelligenza degli interlocutori. Per non parlare di quanto s'è visto davanti alle chiese. Che ridotte ad ultima appendice del killeraggio mediatico-giudiziario hanno fatto proprie, in tante, troppe, noiose e pur terribili omelie, le scriteriate rampogne e posture in assetto di sprezzo di nonna Roberta De Monticelli.

    E' accaduto così, in breve, che anche Milano questa volta parlasse con la pancia e dicesse col ruttino: via i programmi, via l'Expo, via i 30 miliardi di grattacieli newyorchesi, via quel cireneo di Carlo Masseroli, assessore all'Urbanistica che per cinque anni ha condotto un estenuante tour de force di studi e negoziazioni per portare a casa un piano di governo del territorio che a Milano mancava dagli anni Cinquanta e che continuerà a mancare (lo ammette in privato anche l'architetto Stefano Boeri, esponente del Pd battuto alle primarie dal mite zapateriano) ancora per chissà quanti anni.

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