Money League/28

Perché Manchester United e Barcellona non sono in finale per caso

Francesco Caremani

16 settembre 1992, è questo il D-Day del calcio europeo, il giorno in cui tutto ebbe inizio e la Coppa dei Campioni cominciò a perdere nome e proporzioni, soprattutto quelle economiche. L'Uefa non aveva chiara la formula da adottare e la "gioventù" che alberga negli uffici di Nyon in Route de Genève 46 tirò fuori qualcosa a metà tra i Mondiali del '50 in Brasile e quelli degli anni Settanta, di girone in girone verso la finale.

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    16 settembre 1992, è questo il D-Day del calcio europeo, il giorno in cui tutto ebbe inizio e la Coppa dei Campioni cominciò a perdere nome e proporzioni, soprattutto quelle economiche. L'Uefa non aveva chiara la formula da adottare e la "gioventù" che alberga negli uffici di Nyon in Route de Genève 46 tirò fuori qualcosa a metà tra i Mondiali del '50 in Brasile e quelli degli anni Settanta, di girone in girone verso la finale.

    Turni preliminari a parte, la prima Champions League, dopo sedicesimi e ottavi, filtrò otto squadre da suddividere in due gironi, le due vincenti (Milan e Olympique Marsiglia) avrebbero giocato la finale. In quel G8 non c'erano Real Madrid, Barcellona, Manchester United, Bayern Monaco, ecc. Era ancora la manifestazione alla quale prendevano parte solo le squadre che avevano vinto il campionato, sarà così fino al 1996 compreso. Nel 1993-94 dopo i gironi s'inventano pure le semifinali secche, un aperitivo prima della finale monstre Milan-Barcellona 4-0 e tanti saluti al Dream Team di Johan Cruijff. Ma è solo l'anno dopo che la Champions League inizia a prendere forma (e soldi) come la conosciamo oggi con i gironi subito dopo il turno preliminare, poi quarti, semifinali (andata e ritorno) e finale secca. Nel 2003-04 si aggiungono anche gli ottavi (che prendono il posto della seconda fase a gironi introdotta nel '99-00) con l'allargamento alle seconde, terze e quarte qualificate iniziato nella stagione '96-97. Senza dimenticare che i gironi (come edizione Beta) furono introdotti al posto di quarti e semifinali già nel '91-92 (Barcellona-Sampdoria 1-0).

    L'idea, uno dei cavalli di battaglia di Michel Platini, presidente Uefa dal 26 gennaio 2007, era quella di democratizzare la Coppa dei Campioni, renderla economicamente appetibile e accessibile ai più. Centrato il primo obiettivo, il secondo è stato completamente disatteso e basta guardare chi ha vinto la Champions dal '93 a oggi e quali finali sono state disputate per capire che i cinque movimenti più importanti dominano con 16 coppe vinte su 18: 5 Italia e Spagna, 3 Inghilterra, 2 Germania, 1 Francia, Olanda e Portogallo. E le finaliste? Ajax a parte appartengono ai soliti Big Five. Rispetto allo storico della Coppa dei Campioni Olanda e Portogallo hanno un ruolo da comprimarie mentre gli altri movimenti (finalisti o che hanno vinto almeno una volta) sono stati spazzati via dalla democratizzazione economica.
    Con due dati d'interessante lettura. Il primo è abbastanza evidente: più vinci, più guadagni, maggiormente investirai per raggiungere gli stessi obiettivi. Risultati alla mano, in Europa i ricchi lo diventano sempre di più e agli altri restano le briciole, anche sotto forma di Europa League, dove infatti dominano squadre dell'Est, portoghesi di ultima generazione, spagnole, italiane, olandesi e inglesi di seconda fascia, con l'eccezione Galatasaray.

    L'altro riguarda i proventi che si sono spartiti i club per la partecipazione alla Champions League 2009-10, quella del dominio mourinhiano, tanto per farsi un'idea. L'Inter, ovviamente, è prima con 48.759.000 euro, segue il Manchester United con 45.811.000 e il Bayern Monaco con 44.862.000 (fonte futebolfinance.com). I Red Devils sono quelli che hanno ottenuto di più dai diritti commerciali, quasi 29 milioni di euro, staccando di gran lunga tutti gli altri, mentre l'Inter ha fatto fruttare il campo. Tra i primi venti, scendendo anche di un terzo con i proventi, ci sono Porto, CSKA Mosca, Besiktas e Olympiakos, per il resto tutte squadre appartenenti ai cinque maggiori campionati. Al 32° posto c'è il Maccabi Haifa con 8.530.000 euro, di cui 7,1 dai risultati sportivi. Soldi che, come nel caso del Debreceni, Apoel e Standard Liegi servono sicuramente ma non cambiano il destino di un club. Per i piccoli, infatti, la Champions è come una lotteria ma non un business su cui fare programmi a lunga scadenza.

    Ogni anno vincerla frutta qualche milione in più, ma sono cifre risibili rispetto ai costi operativi e all'indebitamento (secondo Deloitte la perdita netta attuale della serie A è di 250 milioni di euro), a volte appena sufficienti a coprire il monte ingaggi. Nel 2009 sporteconomy.it stimava 3 miliardi di sterline di debiti per la Premier League e 2 per il campionato italiano. Eppure, proprio il calcio più indebitato spadroneggia nella moderna Champions League (la finale Manchester United-Barcellona è solo una sintesi). E il fair play finanziario incombe. Un dubbio, però, ci perseguita: la Champions League doveva rendere più ricchi i club e aiutare il calcio europeo, ma il circolo virtuoso è diventato vizioso e il rischio implosione (banche permettendo) è sempre dietro l'angolo. E se stessero solo cercando di rimediare a un grossolano errore di prospettiva?

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