Tutte le carte che i Brics si giocheranno contro la Lagarde al FMI

Ugo Bertone

Una bella lettera in inglese, tanto per smentire il solito stereotipo dello sciovinismo francese. Anche a questo ha pensato Christine Lagarde, 55 anni, ministro delle Finanze di Nicolas Sarkozy, da ieri candidata ufficiale per la successione di Dominique Strauss-Kahn alla direzione del Fondo Monetario Internazionale. Ma, almeno a prima vista, qualcosa non ha funzionato. Tanto per cominciare la Cina, che secondo quanto aveva affermato pubblicamente il portavoce del governo parigino, François Baron, avrebbe già dato il suo benestare alla staffetta tra francesi al vertice del Fondo, ha dimostrato di pensarla in maniera ben diversa.

    Una bella lettera in inglese, tanto per smentire il solito stereotipo dello sciovinismo francese. Anche a questo ha pensato Christine Lagarde, 55 anni, ministro delle Finanze di Nicolas Sarkozy, da ieri candidata ufficiale per la successione di Dominique Strauss-Kahn alla direzione del Fondo Monetario Internazionale. Ma, almeno a prima vista, qualcosa non ha funzionato. Tanto per cominciare la Cina, che secondo quanto aveva affermato pubblicamente il portavoce del governo parigino, François Baron, avrebbe già dato il suo benestare alla staffetta tra francesi al vertice del Fondo, ha dimostrato di pensarla in maniera ben diversa. Ieri, pochi minuti prima dell'ufficializzazione della candidatura di Lagarde, è stato reso noto un comunicato di protesta in sette punti contro la pretesa europea di imporre un suo candidato, firmato dai rappresentanti di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica nel cda del Fondo composto da 24 membri. Nella lettera si chiede in sostanza che stavolta non si decida in base alla nazionalità dei candidati. O almeno, si commenta con ironia tutta diplomatica, che si tenga conto delle parole di Jean-Claude Juncker, il presidente dell'Eurogruppo che nel 2007 dichiarò: “Dopo Strauss-Kahn una sola cosa mi sembra sicura: il successore non sarà europeo”.

    Ma l'ostilità dei Brics, pur rilevante, non dovrebbe frenare la marcia di madame Lagarde verso la poltrona di Washington. Purché, naturalmente, tenga l'asse che ha governato le grandi istituzioni economiche del dopoguerra: all'Europa la guida del Fondo, agli Stati Uniti quella della Banca Mondiale. Ma alla vigilia del G8 di Deauville, che tra oggi e domani dovrebbe incoronare il ministro francese, anche il segretario al Tesoro americano, Timothy Geithner, ha spiazzato i francesi: “Il successore deve essere scelto attraverso un processo che prevede una competizione”, ha detto, aggiungendo che sia la Lagarde che l'altro candidato più accreditato, il governatore della Banca centrale del Messico, Agustín Carstens, “sono persone credibili e molto affidabili”. Insomma, si paventa il rischio di un conclave a suon di voti.

    Dietro la scelta del successore di DSK si delineano i nuovi poteri dell'economia globale. Non è più l'occidente, come accadeva solo 15 anni fa, a dettare legge. Oggi è la periferia dell'area euro ad aver bisogno dei quattrini del Fondo che pure ancora comanda, visto che l'Europa controlla il 32 per cento dei voti e basta aggiungere l'appoggio di qualche satellite al 16,7 in mano all'America per avere la maggioranza. Ma forse i giochi non sono così facili. Anche perché gli emergenti, sia in Africa che in America latina, hanno oggi un'alternativa: i prestiti in arrivo dalla Cina o, presto, anche dall'India che cerca di recuperare terreno rispetto a Pechino. Il vero rischio paventato a Washington, insomma, è che la “via francese” induca il fronte dei Brics a disertare il Fondo per altre soluzioni.

    A partire per esempio dal costituendo “Fondo Monetario Asiatico”, come qualcuno già chiama gli accordi di Chiang Mai siglati in Thailandia nel 2000. In seguito a quell'intesa – conclusa proprio all'indomani della crisi asiatica degli anni 90 e in reazione all'intervento del FMI che fu giudicato inefficace da molti governi dell'area – è nato un fondo di oltre cento miliardi di dollari. Si tratta di parecchi soldi, ufficialmente disponibili dal marzo 2010 per ciascuno dei cofirmatari: una lista che include i membri dell'Asean (ovvero i 10 paesi del sud est asiatico) e tre potenze come Cina, Giappone e Corea del sud. In questi ultimi mesi i leader degli stati in questione sono tornati a vedersi con frequenza per oliare al massimo la nuova organizzazione. Come per dire: se l'occidente non accetta di cambiare le regole del gioco a Washington, noi ci prendiamo il pallone e andiamo a giocare altrove.