E' giusto che Atene cada

Stefano Cingolani

"La dinamica che definisce il capitalismo, quella dell'inesorabile competizione sul mercato, cozza con il desiderio umano di stabilità e certezza: questo è il problema. La competizione, la forza più grande del capitalismo, crea ansietà in tutti noi”. Alan Greenspan, allievo di Ayn Rand, coglie nelle sue memorie, “L'età della turbolenza”, il senso ultimo della questione. L'ansia e poi il panico hanno dominato la grande crisi finanziaria. Ma la voglia di stabilità e certezza si  trasforma in un boomerang.

    "La dinamica che definisce il capitalismo, quella dell'inesorabile competizione sul mercato, cozza con il desiderio umano di stabilità e certezza: questo è il problema. La competizione, la forza più grande del capitalismo, crea ansietà in tutti noi”. Alan Greenspan, allievo di Ayn Rand, coglie nelle sue memorie, “L'età della turbolenza”, il senso ultimo della questione. L'ansia e poi il panico hanno dominato la grande crisi finanziaria. Ma la voglia di stabilità e certezza si  trasforma in un boomerang. I salvataggi, l'assistenza, la spesa pubblica e l'aumento dei debiti, la filosofia del TBTF, Too Big To Fail, troppo grande per fallire (o troppo sistemico, variante dello stesso concetto), tutto ciò ha intrappolato il mondo ricco, nell'illusione di rinviare l'inevitabile resa dei conti. Perché una cosa è certa, nessun pasto è gratis e alla fine la lista della spesa arriva sul tavolo.

    Il ventinovismo con il quale
    è stata letta la crisi del 2008-2010 è una vera e propria mistificazione. Lo ha confermato ieri il discorso di Mario Draghi a Berlino. Il mondo ha recuperato i livelli precedenti. La recessione è durata due anni, non dieci come dopo il 1929. Si dice che l'intervento pubblico, utilizzando ancora una volta la keynesiana cassetta degli attrezzi, abbia evitato un collasso generale; in realtà, ha rinviato l'appuntamento con il destino economico di industrie, banche e governi. Adesso è in corso una dura selezione e chi non è in grado di affrontare il momento della verità, resta tagliato fuori per sempre. La concorrenza quando funziona rimette in equilibrio le forze in campo, e affinché funzioni deve lasciare aperte entrambe le porte: quella d'ingresso e quella d'uscita, cioè consentire a nuovi soggetti di partecipare al gioco senza intralci all'entrata, però chi ha perso deve abbandonare il campo. Joseph A. Schumpeter, umanista austriaco prima che economista, trasforma questo principio base nella “distruzione creatrice”, ispirata dallo “slancio vitale” di Henri Bergson.

    Dunque al fallimento non c'è alternativa? Al contrario, il fallimento è l'alternativa a una lunga fase di stagnazione dell'Europa e dell'occidente. Per il mondo anglo-sassone, fallire non è morire, ma la condizione per rinascere. Non una condanna capitale, né la radiazione dal consesso umano. E' la presa d'atto di una realtà e il civile, profondamente etico, pagamento dei propri errori, senza giustizialismo economico, ma ponendo al centro la responsabilità delle proprie azioni. La legislazione americana ha messo a punto diversi strumenti, atti non a rinviare la fine, ma ad attenuarne le conseguenze, come nel caso della legge americana sulla bancarotta e il capitolo 11 che protegge anche il debitore dall'umano desiderio del creditore di farlo a pezzi.
    Non sempre, nell'affrontare il crac finanziario, gli Stati Uniti hanno seguito con coerenza questi principi, sono prevalsi corposi conflitti d'interesse, con conseguenze pesanti. Il fallimento di Lehman Brothers è stato mal gestito. Le banche che si erano riempite di titoli tossici sono state salvate, ma le cambiali giacciono ancora nei loro bilanci.

    Non solo, a quelli privati si sono aggiunti adesso i buoni del Tesoro. E, poiché anch'essi si dimostrano pieni di tossine e pronti a marcire, i banchieri, per imbellettare i conti, garantendosi bonus e poltrone, chiedono di salvare gli stati. Chi paga? Ancora e sempre i contribuenti. E' il turbamento di Angela Merkel la quale non sa se continuare a sostenere i propri colossi finanziari con i soldi dei tedeschi (i quali la votano sempre meno) o se mollare il pilastro del Modell Deutschland e in parte del suo stesso potere.
    Il “dilemma di Francoforte”, come lo chiama il Financial Times, riguarda la Banca centrale europea: se fosse per lei, avrebbe abbandonato la Grecia perché nulla nel suo statuto dice che deve farsi carico dei paesi a rischio di collasso. E l'unico modo per salvare l'euro, è proprio quello di non trasformarlo in una ciambella di salvataggio. “L'uscita di Atene dal sistema monetario è ormai sul tavolo”, ha scritto sul suo blog la greca Maria Damanaki, socialista, commissario europeo alla Pesca, ammonendo l'opposizione: “O troviamo un accordo o torniamo alla dracma”. Jean-Claude Trichet rifiuta ogni ristrutturazione del debito e il suo successore Draghi non chiude la porta a “fallimenti ordinati che non richiedono ripescaggi sulle spalle dei contribuenti, ma fanno ricadere i costi su azionisti e creditori”. Messaggio alle banche più esposte: aumentino il capitale senza chiedere altri soldi pubblici.

    Chiunque abbia buon senso,
    ormai, sa che il default è inevitabile. I mercati lo hanno già scontato e lo si può leggere nel prezzo, l'indicatore principe della domanda e dell'offerta: i titoli greci, per essere venduti, debbono offrire un premio altissimo, fino al 23 per cento sui bond triennali. Dunque, anche un calcolo utilitaristico suggerisce che è meglio non perdere altro tempo e denaro.

    La questione, però, non è solo di opportunità, ma di principio: Atene deve fallire perché solo così può far pulizia del passato e dei suoi errori. E avviare le riforme su base sana. E solo in questo modo, i responsabili usciranno allo scoperto: in primo luogo i governi, ma anche un sistema bancario che ha preferito infilare le dita nella marmellata, ceti sociali vissuti di assistenza e spesa pubblica, industriali che hanno rinviato sine die il miglioramento delle loro aziende e dei loro prodotti, sindacati che hanno contrattato condizioni salariali e lavorative insensate, baby pensionati che campano a spese dei loro figli, una pressione fiscale pari a 37 punti di prodotto lordo e una spesa pubblica che supera i 50. Si dice: i politici hanno truccato i conti, paghino loro. D'accordo, tuttavia a quell'imbroglio hanno partecipato davvero in tanti (banche straniere comprese). E non c'è solo la Grecia.
    Non tutti hanno falsificato i bilanci. Certo non lo ha fatto il Portogallo che sconta una debolezza strutturale della propria economia di fronte alla crisi, alla concorrenza dell'oriente e alla forza dell'euro. La Spagna non ha consolidato i debiti delle regioni con la scusa della loro autonomia contabile, ma in fondo è un peccato veniale. Peggio, semmai, è aver buttato al vento l'improvvisa ricchezza immobiliare e finanziaria (maglia nera in questo è l'Irlanda). Anche l'Italia ha passato il suo periodo di “finanza creativa”, ma i problemi di fondo sono altri: una mano pubblica troppo pesante e troppo estesa e una produttività del sistema così bassa da non consentire un aumento del reddito nazionale in grado di assorbire il debito.

    Lo storico dell'economia Barry Eichengreen ha proposto di applicare alla Grecia il modello seguito da Nicholas Brady, segretario al Tesoro di Bush padre, per affrontare il collasso del Messico e dell'America latina. Il punto di partenza, come per ogni fallimento, è non riconoscere più il debito al cento per cento del suo valore. Ma a far da garante dei Brady bond era il governo americano con il dollaro, una moneta con dietro un sovrano. L'euro, invece, è ancora una moneta senza sovrano.