Il Pd e l'allergia per i leader

Alessandra Sardoni

Una speranza si aggira nel Pd che ripensa se stesso per il “dopo”, la regione spazio-temporale, sconosciuta, ma evidentemente avvistata, del post berlusconismo, quale che sia la valenza reale del voto amministrativo. Che un'uscita di scena del leader personale per eccellenza, del capo carismatico, dell'egoarca per dirla con le parole di Repubblica, prepari la rivincita dell'anti leaderismo.

Leggi L'idolatria dei sondaggi tra vecchie sezioni e nuovi devoti - Leggi Da Napoli al caso Grillo. Tutti i dossier che preoccupano Bersani - Leggi Niente 25 aprile, ma sempre popolo è - Leggi Il modello femminile a cui si è ispirata la Moratti non funziona di Annalena

Leggi La maggioranza battuta alla Camera sul piano carceri

    Una speranza si aggira nel Pd che ripensa se stesso per il “dopo”, la regione spazio-temporale, sconosciuta, ma evidentemente avvistata, del post berlusconismo, quale che sia la valenza reale del voto amministrativo. Che un'uscita di scena del leader personale per eccellenza, del capo carismatico, dell'egoarca per dirla con le parole di Repubblica, prepari la rivincita dell'anti leaderismo, il trionfo postumo dei partiti, hai visto mai solidi, sui leader tendenzialmente liquidi, insomma il ridimensionamento forte della personalizzazione in politica. Che si tratti di una speranza fondata o di un'illusione ottica, di una prospettiva per la sopravvivenza politica del gruppo dirigente o tutte queste cose insieme è ovviamente da stabilire e in un tempo indefinito, ma i segnali che i vertici del Pd pregustino la possibilità di una rifondazione della leadership collegiale o collettiva si sono moltiplicati nelle ultime settimane.

    “Con una provocazione ho detto: ‘Toccasse a me non metterei il nome nel simbolo'”, ribadisce Pier Luigi Bersani nel libro intervista scritto con Miguel Gotor e Claudio Sardo, “Per una buona ragione”, in piena fase promozionale. Il segretario del Pd auspica un “risveglio” dopo anni in cui si è affermata l'idea di “una politica affidata al leader, semplificata perché delegata”, e “dell'uomo solo al comando come soluzione alla complessa equazione italiana”.

    Un processo che, è la tesi, ha prodotto un esito populista e plebiscitario. “Sarebbe un'illusione”, scrive Bersani, “immaginare che le forze progressiste possano concepire un progetto alternativo assumendo questi canoni come immutabili”. La leadership, conclude Bersani, “può essere il frutto di un progetto collettivo, il leader ancorato a un progetto non è un leader dimezzato”. Ospite di “Porta a Porta” prima delle amministrative, Bersani ha riproposto la stessa visione subordinando al gruppo e al partito perfino la sua candidatura alla premiership, teoricamente prevista dallo statuto del Pd. Tutto perfettamente coerente con le metafore bersaniane classiche: la “barchetta” per esempio, il leader è quello chiamato dagli altri a guidarla nella tempesta, il più adatto in quel momento a quella situazione. Un nocchiero a tempo determinato e infatti nel libro si caldeggia un limite ai mandati per il segretario.

    Questa impostazione in realtà è da sempre molto diffusa nel centrosinistra, saldatura fra le culture degli ex e dei post, Dc e Pci. La versione veltroniana e americana del primo Pd, la linea tutto sommato anti partitica e ulivista di Arturo Parisi, sono eccezioni come vedremo soccombenti negli scenari del dopo. Sotto accusa insieme con il bipolarismo.

    Laterza ha appena pubblicato il saggio del giurista Luigi Ferrajoli, “Poteri selvaggi”, in cui si rilanciano insofferenza per l'idea del leader e ritorno al sistema proporzionale come antidoti ai guasti del berlusconismo. La sintesi in copertina suona così: “In un paese come l'Italia che ha conosciuto il fascismo, l'idea stessa del capo quale espressione della volontà popolare è un'insidia micidiale per il futuro della democrazia”. Fino a qualche tempo fa il richiamo al fascismo era la motivazione con cui si giustificava l'allergia del centrosinistra all'idea del leader forte.

    “Prima il programma poi il leader”, “noi non vogliamo un capo”, “noi siamo diversi da Berlusconi”, “no all'uomo solo al comando”, sono le formule rimbalzate negli anni da un dirigente all'altro, da Rosy Bindi a Franco Marini, e nella generazione successiva, da Enrico Letta ai bersanian-dalemiani più giovani; vedi Matteo Orfini, responsabile Informazione della segreteria di Bersani che di recente spiegava proprio al Foglio come fossero leggibili in chiave partitista e anti leaderistica – il progetto prima del capo – persino i fendenti giolittiani del Quirinale contro la sinistra.
    Lessico e sostanza dunque non sono nuovi, la novità è nella diversa convinzione e frequenza con cui queste parole vengono pronunciate dai leader, in una specie di ottimismo della volontà di chi intravede la possibilità di risolvere una volta per tutte la questione della ricerca o della costruzione dell'anti Berlusconi: semplicemente perché magari potrebbe non servire. Basta cercare il Sacro Graal, è inutile.

    Da qualche tempo Massimo D'Alema va lodando in Transatlantico un saggio recente e molto corposo di Michele Prospero, direttore della rivista del Centro Studi per la Riforma dello Stato, il think tank di Mario Tronti, intitolato “Elogio della mediazione” dove la mediazione elogianda è quella dei partiti. Un testo in cui si analizza con lucidità e anche con rammarico la “scorciatoia carismatica”, si lamentano i danni fatti da chi ha lasciato andare alla deriva le forze politiche strutturate, gli apparati nella loro capacità per l'appunto di mediare e si sviscera, con finalità construens, “la sconfitta culturale dell'idea di partito”. C'è un intero mondo che sembra avvertire la possibilità di un liberatorio “l'avevo detto io”. E che si rinsalda nella convinzione che personalizzazione e questione del leader forte siano torsioni legate al ventennio berlusconiano, una lunga pausa.
    Così appare la voce di uno che grida, se non in un deserto, certamente in un luogo poco affollato. Quella di Michele Salvati, padre morale del Pd e anima della fondazione veltroniana Democratica che ha dato ragione alle strigliate quirinalizie sostenendo in un'intervista al Messaggero che “la sinistra non è credibile perché è acefala” e che pertanto il leader serve. Perché perfino Veltroni, il politico tradizionalmente più convinto dell'importanza della leadership personale, emotiva, carismatica battezzata da quelle primarie che propone di fissare per legge, ha smussato le sue antiche convinzioni.

    Si è visto in televisione la scorsa settimana quando, ospite di “Niente di Personale” su La7, il primo segretario del Pd si è diffuso, lodandolo, sul modello di leadership berlingueriano, sulla collegialità dei gruppi dirigenti del vecchio Pci e della vecchia Dc: “C'erano Berlinguer e Napolitano, Moro e Fanfani, le differenze si vedevano, ma potevano stare insieme perché volevano bene alla causa comune”. Un concetto rafforzato con la presa di distanza dallo stile di comando berlusconiano, “basato sui sondaggi mentre Berlinguer aveva il coraggio di sostenere un'idea a prescindere dal favore della maggioranza”. E' significativo il richiamo al berlinguerismo per una volta non in chiave semplicemente sentimentale, ma come codice per segnalare l'appartenenza a un gruppo, in questo caso lo stesso di Bersani, e al suo modello, quello anti leaderistico e collegiale per l'appunto. Del resto che la direzione imboccata fosse questa si era visto anche nell'intervista al Foglio: “E' importante che nel futuro prossimo siano coinvolte sempre più nel Pd tutte quelle persone di qualità che potrebbero dare una mano al partito. Penso a gente come Renzi, Zingaretti, Chiamparino”, aveva detto Veltroni, secondo la lettura maliziosa dei bersaniani, per velare le sue personali ambizioni.

    “Veltroni, pur non dismettendo mai le vesti dell'americano a Roma, dopo aver accettato l'investitura unitaria della leadership da parte del gruppo dirigente, a seguito della tardiva presa d'atto della sconfitta elettorale, con lo stesso gruppo si è prima scontrato e ora sostanzialmente rappacificato accettando di tornare a essere eguale fra eguali, anche se qualcuno continua a essere più eguale degli altri”, spiega al Foglio Arturo Parisi, politico e politologo convinto che spazi per l'antileaderismo o per il ritorno al primato dei partiti non ce ne siano, ma anche che la tentazione del riflusso sia fenomeno consistente. Tanto da contagiare peraltro anche Romano Prodi: “Sono pronto ad aiutare, non sono mai lontano dal gruppo”, ha detto a Repubblica domenica scorsa rispolverando metafore ciclistiche. “L'importante è non perdere il contatto con il gruppo di testa e non perdere per strada gli ultimi” è il manifesto per restare nel novero delle “risorse”, nel gruppo dirigente, magari sognando il Quirinale come dicono i retroscenisti.
    “Il fatto è che dal punto di vista della concezione di tipo chiesastico della leadership ex democristiani ed ex comunisti si trovano in perfetta armonia”, osserva ancora Parisi.

    Nella cultura politica della Prima Repubblica, in effetti, il “leaderismo” è sempre stato una colpa. Leaderismo è l'accusa mossa ad Achille Occhetto dal suo partito per le modalità della svolta della Bolognina e poi da D'Alema e Veltroni per la sconfitta contro Berlusconi nel '94, argomento per il disarcionamento. Leaderismo è stata anche l'accusa mossa dal neonato Pd a Veltroni nel day after delle politiche del 2008. Il leaderismo è stato, in un certo senso, la profezia della personalizzazione della politica, da stroncare allora, da ridimensionare oggi.

    “La fine di Berlusconi offrirà argomenti e strumenti per tentare di tornare indietro, ahimè e dico ahimè”, prevede Parisi.
    Ernesto Galli della Loggia, che nei suoi editoriali sul Corriere imbraccia spesso il tema del leader come cruciale e non aggirabile per il Pd, spiega al Foglio come ritenere di poter chiudere con la crisi del berlusconismo la questione della leadership sia “una forma di autoillusione retrospettiva. L'Atene di Pericle era di Pericle non del partito dei periclei”.

    L'analisi di Galli della Loggia parte dagli scenari del dopo: “Quando Berlusconi si ritirerà dalla scena si sfascerà tutto a destra e a sinistra. Ci sarà un periodo di disgregazione delle forze politiche e di ricomposizione in forme diverse da quelle attuali. Tutto si è retto su Berlusconi: o nella forma del berlusconismo o in quella dell'anti berlusconismo, dunque tutto ricomincerà dal '92-'93, di fatto dalla fine di Mani pulite. Cosa potrà venirne fuori nessuno lo sa, si disgregherà il Pdl e anche il Pd, riformisti, anti riformisti, cattolici, vattelappesca… Ma una cosa è certa: il leader è tutto e non solo nella politichetta italiana, ma nella politica dei paesi occidentali. Questo fatto è determinato da molte cose: in nessun'altra parte del mondo esistono partiti come quelli della Prima Repubblica italiana, dappertutto invece c'è la televisione. E in televisione si mandano facce. Una faccia, quella che sa parlare meglio. Anzi non una faccia, ma una persona, una personalità: chi ce l'ha viene meglio”.

    Anche Mauro Calise, politologo che alla personalizzazione in politica ha dedicato due saggi nell'insieme critici, “Il partito personale” e “La Terza Repubblica. Partiti contro presidenti”, è scettico rispetto alla realizzabilità di una restaurazione della leadership collegiale. “Per carità è un nobile intento da parte di Bersani”, dice al Foglio, “ma si riesce a convincere quella parte dell'elettorato che è abituato alla leadership personale? La scelta collegiale rischia di risultare minoritaria. Il tema dunque non è tanto la legittimità della restaurazione, ma se ce la fa a funzionare”. Calise ha un approccio sistemico non concentrato solo sui meccanismi della società dei media. Tanto per cominciare distingue fra una personalizzazione “macro”, quella “uno per tutti di Berlusconi al governo, ma che è europea e mondiale”, e la personalizzazione “micro”, la possibilità per chiunque di farsi un partito personale, determinata dai sistemi elettorali locali, ma ben visibile anche in Parlamento come si è notato nel caso dei Responsabili.

    Secondo Calise, già consigliere di Bassolino negli anni d'oro del primo mandato da sindaco e “stratega” del primo Ulivo, un repêchage della leadership collettiva e del primato del partito non è a portata di mano del Pd anche perché la forma assunta dal partito con le primarie – che considera distruttive – lo esclude.
    Quanto allo scenario macro, il dopo Berlusconi, Calise non ha dubbi, sarà all'insegna della frammentazione e sicuramente della personalizzazione: “Fli è un partito personale, lo è l'Italia dei valori, lo è anche l'Udc”, al di là delle recenti velleità restauratrici, neo e post democristiane in questo caso, di Casini che ha proposto come Bersani di togliere il nome dal simbolo. Lo è, sottolinea Calise, Sinistra e libertà, totalmente identificabile nella persona di Nichi Vendola. Lo riconosce lo stesso Bersani nel saggio succitato: “Sel e Idv sono partiti con una forte impronta personale. Ma le persone passano a cominciare da me, mentre sono convinto che il valore di una ricomposizione riformista resterà un valore attuale per decenni nel nuovo secolo”. Sociologi e politologi all'orizzonte scorgono soprattutto contraddizioni: uno sbriciolamento, una moltiplicazione dei partiti personali sia pure con leadership deboli, giammai la rinuncia a un leader riconoscibile. A sentire Parisi la leadership personale tende a traslocare o a estendersi anche al Quirinale dove il “carisma di funzione” rafforza la personalità dei presidenti e la sindrome della supplenza.

    “Non c'è scampo, indietro non si torna – conclude Calise – l'unica soluzione alla deriva personalistica, l'unica possibilità di contenimento è di tipo istituzionale: riformare la Costituzione e introdurre l'elezione diretta del premier, in qualsiasi forma, francese, inglese, qualunque, quello che si era tentato di fare nella Bicamerale”. Un pensiero più che mai minoritario a sinistra, ma in realtà, osserva Calise, “mai realmente preso in considerazione neppure da Berlusconi”, nonostante il rilancio di queste ore, in campagna elettorale. “Quello sì che sarebbe stato un lascito”, perché se il potere personale c'è, meglio che sia imbrigliato nelle regole – è la tesi – e che non si possa più spendere l'argomento populista del ‘non mi fanno governare'. Un'elezione diretta insomma come antidoto alla disgregazione del dopo, questo sì scenario condiviso, ritenuto, lo dice anche Galli della Loggia, ineluttabile e pericoloso in mancanza di un centro di gravità.
    Sulla strada di un ritorno ai partiti e alla collegialità – questo fa intravedere Prospero – incombono le spinte dell'individualismo, la società intimista. Ma anche la difficoltà a costruire i gruppi dirigenti. Tra i non bersaniani del Pd si fa notare come per un paradosso anche Bersani, il teorico dello schema primus inter pares e del primato del partito, non sia riuscito a dare peso e visibilità alla sua segreteria fatta effettivamente di giovani.

    “Il vero gruppo dirigente sono gli altri, i vecchi – osserva Parisi – gli stessi D'Alema, Bindi, Enrico Letta, Veltroni, Marini, Fioroni, che componevano il ‘caminetto' nell'era Veltroni, anche lui demiurgo di una segreteria di volti più o meno nuovi. In passato i segretari dei partiti comunisti erano a vita e questo rendeva impossibile che si formasse alla loro testa un gruppo dirigente fatto di ex. Oggi invece che gli ex si vanno moltiplicando D'Alema si trova a essere ‘il primo ex segretario', quasi fossimo ancora ai tempi del Pcus post staliniano quando la guida era nelle mani del primo segretario del partito”, aggiunge ancora Parisi. La visibilità anche generazionale è di chi se la prende puntando sulla leadership personale, chi cerca il carisma non solo connesso alla funzione, chi si fa largo: Renzi per restare nel Pd, appena fuori, Vendola.

    Eppure nella rivendicazione della mediazione partitica e della leadership collegiale la maggioranza del Pd ha almeno due alleati: il primo è Berlusconi che ha aperto il tema del dopo se stesso nominando, illudendo e bruciando più di un possibile erede. Il secondo è il Pdl che, immaginando il tramonto dei predellini, spera nella spartizione ancorché rissosa di quote di eredità. Quasi a dire che nessun successore è ipotizzabile se non cambia lo schema. Così il Pd confida nel Pdl e nel Terzo polo visto che anche da quelle parti la questione della leadership comincia a mostrare sorprendenti somiglianze con quella classica del Pd: Italo Bocchino è arrivato, già da un paio di mesi, allo slogan “candidiamo una donna” pur di aggirare la questione Casini. E nello stesso Pdl spuntano argomenti già consumati nel Pd: “Il successore si vedrà”, “conta il progetto”, “abbiamo tante personalità di rilievo” ecc. Il tutto nella consapevolezza che solo un modello collegiale e alla fine oligarchico possa garantire la sopravvivenza politica di tutti.

    A quel punto però è il Pd a ritenere di avere più filo da tessere: se tutto frana, se il partito di plastica dovesse sciogliersi, l'unica forza politica che si chiama ancora partito, come dice orgogliosamente Bersani, potrebbe partire in vantaggio. Solo la Lega scommette infatti sulla sua natura di partito per il suo futuro post Bossi.

    Il rischio che si tratti – per tutti – di un gigantesco trompe-l'oeil è altissimo nell'epoca di Obama, Sarkozy e Cameron, tanto per fare qualche nome. “Il mondo è una cosa e l'Italia un'altra”, osserva Parisi con l'aria di chi aveva scommesso su un altro epilogo. Ammainate le bandiere dell'europeismo e del mito democrat, derubricato il complesso esterofilo verso i “paesi normali”, da Alfano a Maroni, da Tremonti a D'Alema, da Bersani fino a Veltroni potrebbero essere in tanti a confidare, per una volta concordi, nell'anomalia italiana.

    Leggi L'idolatria dei sondaggi tra vecchie sezioni e nuovi devoti - Leggi Da Napoli al caso Grillo. Tutti i dossier che preoccupano Bersani - Leggi Niente 25 aprile, ma sempre popolo è - Leggi Il modello femminile a cui si è ispirata la Moratti non funziona di Annalena

    Leggi La maggioranza battuta alla Camera sul piano carceri