Inflazione di parole

Alberto Brambilla

Ben Bernanke oggi sarà il primo governatore nella storia della Federal Reserve a tenere una conferenza stampa successiva al comitato direttivo della Banca centrale americana. La Fed allinea così la propria strategia comunicativa a quella della controparte europea, ed è proprio studiando gli interventi di fronte ai giornalisti di Jean-Claude Trichet, presidente della Banca centrale europea, che Bernanke si sarebbe preparato all'evento odierno. Per quanto sia epocale la svolta della “glasnost”, come l'ha ribattezzata il quotidiano finanziario Wall Street Journal, non basterà però fare chiarezza di fronte ai cronisti per rendere la Fed più efficace ed efficiente.

    Ben Bernanke oggi sarà il primo governatore nella storia della Federal Reserve a tenere una conferenza stampa successiva al comitato direttivo della Banca centrale americana. La Fed allinea così la propria strategia comunicativa a quella della controparte europea, ed è proprio studiando gli interventi di fronte ai giornalisti di Jean-Claude Trichet, presidente della Banca centrale europea, che Bernanke si sarebbe preparato all'evento odierno. Gli analisti non si attendono una stretta monetaria improvvisa, magari tramite innalzamento dei tassi di interesse di riferimento. Tutt'al più, secondo alcuni, Bernanke dirà esplicitamente che il piano di acquisto di titoli del Tesoro per 600 miliardi di dollari – lanciato nel novembre 2010 – non sarà prolungato al di là della naturale scadenza di giugno. Anche perché oramai da settimane non si manca da più parti di sottolineare gli scarsi effetti della politica monetaria superespansiva sulla creazione di posti di lavoro e sulla crescita economica. Non solo: messo per la prima volta di fronte ai giornalisti, Bernanke dovrà rendere conto dell'aumento generale dei prezzi e fornire prospettive su un possibile rialzo dei tassi d'interesse, una mossa restrittiva – quest'ultima – ipotizzabile per la Fed a metà 2012 ma già inaugurata dalla Bce all'inizio di aprile.

    Per quanto sia epocale la svolta della “glasnost”, come l'ha ribattezzata il quotidiano finanziario Wall Street Journal, non basterà però fare chiarezza di fronte ai cronisti per rendere la Fed più efficace ed efficiente. Interferenze, chiacchiere e rumori di fondo hanno caratterizzato in tempi recenti la comunicazione della Banca. I governatori dei dodici distretti hanno infatti la facoltà di parlare ai microfoni, rilasciare interviste, esprimere le proprie opinioni, creando però dissidi interni e alimentando la speculazione sulle scelte dell'istituto preposto a controllare l'inflazione e monitorare la disoccupazione negli Stati Uniti. D'altronde non mancano le ricerche nelle quali si dimostra che le parole dei banchieri centrali spesso non fanno che aumentare l'incertezza sui mercati. Attraverso interventi e discorsi a braccio, i governatori acuiscono il nervosismo degli investitori e la volatilità sui listini, come prova la ricerca intitolata “Macroprudential policy and central bank communication”, scritta di recente da due economisti della Bce, Michael Ehrmann e Marcel Fratzscher, con Benjamin Born dell'Università tedesca di Bonn. Gli autori hanno scandagliato oltre mille rapporti divulgati da 36 Banche centrali in quattordici anni, incrociando i messaggi lanciati con gli effetti sui mercati, per concludere che “la comunicazione da parte delle autorità monetarie sulla stabilità finanziaria può effettivamente influenzare i corsi azionari ma è necessario usarla con la massima cura”, soprattutto cercando una strategia ordinata d'intervento, dal momento che proprio la vigilanza sui rischi sistemici è diventata una priorità a livello globale. La “parola”, intesa come strumento di politica monetaria, era però rimasta fino a pochi anni fa fuori dal dibattito. Secondo la ricerca, la comunicazione istituzionale, composta di note periodiche e report ufficiali, produce due effetti positivi: “Fa notizia e riduce i rumori di fondo”. Tali strumenti vengono trattati dagli investitori come fonte certificata di informazione, anche di carattere previsionale, e hanno la capacità di muovere i corsi azionari di due punti percentuali nei 30 giorni successivi alla pubblicazione. Succede il contrario quando i banchieri parlano a ruota libera: “Discorsi e interviste sono uno strumento nettamente meno efficace – criticano Ehrmann, Fratzscher e Born – aggiungendo che, oltre ad avere un effetto modesto sul mercato azionario, tendono ad aumentare la volatilità anziché ridurla”.

    In un contesto di forte offerta di comunicazione
    da parte delle Banche centrali, come negli ultimi mesi, gli istituti centrali stanno riflettendo sul metodo migliore per divulgare le proprie scelte: “L'inflazione non fa mai bene, nemmeno l'inflazione di parole”, dice al Foglio Donato Masciandaro,  docente di Economia politica all'Università Bocconi di Milano. “Quella della Fed è una svolta positiva ma deve tradursi in un effettivo cambiamento nella strategia comunicativa dell'istituto. A differenza della Bce, che ha come obiettivo dichiarato la stabilizzazione dell'inflazione, la Fed non ha un solo obiettivo primario, e ciò aumenta la confusione se si fa cattiva comunicazione”. Per questo motivo la postura dev'essere quella di una divulgazione ridotta nella quantità e precisa nella qualità: “Per adesso abbiamo solo l'annuncio dello strumento della conferenza stampa, peraltro non nuovo nel panorama internazionale, ma nulla di più. Il governatore della Fed – suggerisce Masciandaro – dovrebbe parlare solo quattro volte l'anno, e cioè una volta a trimestre”. Questa scadenza segnerebbe “la vera svolta nella strategia di comunicazione della Fed, finora troppa e confusa, altrimenti non sarà cambiato niente, anzi”, conclude Masciandaro. E' perciò una prassi che deve essere rodata prima di inneggiare a una nuova epoca di trasparenza della Fed che, come la Bce, ha ancora da imparare sotto questo aspetto dai colleghi scandinavi, inglesi e neozelandesi, che alla vigilia della crisi finanziaria erano in cima alle classifiche dell'indice di trasparenza per le Banche centrali al quale sta lavorando lo stesso Masciandaro.

    • Alberto Brambilla
    • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.